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Un capitalismo dal volto umano ?

Torino, 28 giugno 2011
E' interessante riflettere su nuovi scenari dove un capitalismo "dal volto umano" possa far convivere crescita e opportunità per tutti indipendentemente da censo, età, regione geografica.
L'occasione è data da un articolo di Rampini pubblicato oggi su La Repubblica online che qui volentieri ripropongo.
Rifondare il capitalismo, “inclusivo”: ecco l’America visionaria
C’è chi lo battezza “capitalismo inclusivo” e chi preferisce “capitalismo democratico”. Non conta l’etichetta ma il contenuto: un cambio radicale di priorità, regole e valori, un nuovo umanesimo che comanda l’economia. Meno finanza, meno diseguaglianze, una diversa gerarchia nei luoghi di lavoro, un mondo imprenditoriale con finalità alternative al solo profitto. Non è un libro dei sogni, è il risultato di una vasta consultazione avvenuta in America tra imprenditori, innovatori, giuristi, studiosi di ogni disciplina, dalla finanza alla proprietà intellettuale. Il dibattito lo ha lanciato la rivista The Nation, laboratorio di idee della sinistra americana, con il titolo Reimagining Capitalism e questa domanda: “Immaginate di poter reinventare il capitalismo, da dove comincereste? Cosa si può cambiare per renderlo meno distruttivo, più centrato sui reali bisogni dell’umanità, per orientarlo a rendere le nostre vite migliori?” Le risposte potevano sbizzarrirsi ai confini dell’Utopia. Invece si sono mobilitati protagonisti dell’economia, esperti di rango, con un elenco di proposte concrete, 13 grandi idee, progetti per cambiare da subito. Il successo dell’iniziativa rivela una voglia di riforme ben più diffusa di quanto appaia dal dibattito politico tradizionale. “Tutti hanno in comune una caratteristica – commenta il caporedattore di The Nation, William Greider – è gente allenata a pensare nel lungo termine, con esperienze concrete dal business alla finanza, attivisti e ottimisti, capaci di sfoggiare un’inventiva sorprendente”. E’ la prova che l’America “è ancora viva e vitale, ricca di pensiero giovane, propensa a lanciarsi verso grandi cambiamenti”. Alcune di queste proposte innovative si stanno già facendo strada da sole, dentro la società civile, con un’esplosione di iniziative dal basso. Poche di queste idee circolano nei partiti, ancora prigionieri di schemi arcaici: la destra vuole “lo Stato minimo”, i democratici o sono sulla difensiva o si limitano a invocare “più Stato”. Mentre dalle 13 idee per cambiare il capitalismo emerge una certezza comune: c’è bisogno “di uno Stato più forte, non più grosso”, una distinzione importante visto che l’Occidente intero dovrà affrontare per diverse generazioni un risanamento delle finanze pubbliche. Gli esperti che hanno aderito all’iniziativa di The Nation non chiudono gli occhi di fronte a una delle contraddizioni della sinistra: “Non basta invocare più regole, visto che il fallimento delle regole è stata una delle cause dell’ultimo spaventoso tracollo del capitalismo”. E proprio dalla colonna portante del capitalismo, cioè l’impresa, partono alcune delle idee d’avanguardia raccolte su The Nation. “Benefit Corporation”, traduzione Impresa Benefica: è una società per azioni il cui statuto sociale e ragion d’essere sia diversa dal profitto. Non è un sogno, è un cambiamento delle normative già in atto in California, New Jersey, Maryland, Virginia e Vermont, tutti Stati che hanno modificato il codice civile per consentire la diffusione di aziende che costruiscono “un’economia di mercato ma non una società di mercato”. Jamie Raskin, giurista costituzionale e senatore del Maryland, elenca diverse Benefit Corporations che hanno come finalità obbligatoria “un impatto positivo sulla società e l’ambiente: alcune si occupano del risanamento di fiumi, altre operano nell’edilizia popolare, altre ancora combattono l’analfabetismo di ritorno”. E’ un movimento reale, il B Lab di Philadelphia ha già censito oltre 400 Benefit Corporations. E a differenza dello statuto generico di cooperative, il marchio delle Benefit Corporations si può perdere: “se l’azienda non tratta i propri dipendenti, la comunità locale e l’ambiente con lo stesso rispetto che ha per gli azionisti”. William Lerach, noto avvocato che ha vinto battaglie storiche in difesa dei consumatori e dei piccoli azionisti (ottenne 7,2 miliardi di rimborsi per i soci di minoranza Enron) spiega come introdurre “un poliziotto in ogni consiglio d’amministrazione, imponendo alle S.p.a. un amministratore indipendente che per legge protegga gli interessi dei dipendenti e del pubblico”, aggirando le costruzioni barocche e inutili della corporate governance. Kent Greenfield, giurista del Boston College, spiega perché va abolita la “responsabilità limitata”: nata per favorire gli investimenti imprenditoriali (isolando il capitale d’impresa dalle proprietà dei singoli azionisti) è diventata la causa di una dilagante irresponsabilità capitalistica. “L’imprenditore che rischia in proprio, che perde se sbaglia”: questa figura d’altri tempi, così lontana dall’impunità recente invalsa ai vertici del capitalismo, torna in auge grazie agli Employee Stock Ownership Plan (Esop): 11.000 aziende sono state comprate dai loro stessi dipendenti, in tutto 12 milioni di lavoratori. Il giurista Vincent Panvini estende la lezione a tutte le imprese: “Contro la figura del chief executive de-responsabilizzato, che si arricchisce coi paracadute d’oro anche quando rovina l’impresa, tutte le regole retributive del top management devono essere tassativamente allineate alla salute dell’azienda”. Joe Costello prevede gli enormi vantaggi per la collettività dall’estensione sistematica dei principi dell’”open information”, riducendo l’appropriazione privata delle scoperte e della proprietà intellettuale da parte delle multinazionali. Sarah Anderson dell’Institute for Policy Studies rilancia la tassa sulle transazioni finanziarie con un progetto concreto per risolvere i dissensi tra Europa e Stati Uniti. Robert Weissman che dirige il movimento Public Citizen prende ispirazione dal salvataggio statale di General Motors e Chrysler, e spiega tutte le leve d’influenza che il governo può mobilitare per orientare gli investimenti privati: a vantaggio delle energie rinnovabili, per la tutela della salute, la ricerca scientifica. Barbara Dudley racconta come sta prendendo piede nell’Oregon una nuova forma di microcredito, che aggira il potere delle grandi banche e garantisce finanziamenti a chi ne ha più bisogno: studenti universitari, piccole imprese, cooperative. Joseph Blasi, Richard Freeman e Douglas Kruse sono tra i più autorevoli esperti di relazioni industriali a Harvard e Rutgers: insieme firmano la proposta che rivoluzionerebbe gli incentivi fiscali per le imprese, limitandoli a quelle che riservano all’80% della manodopera (la parte bassa della piramide gerarchica) le stesse risorse che servono a pagare il 5% del top management. Una ricetta semplice per invertire la tendenza all’ipertrofìa dei superstipendi e al patologico aumento delle diseguaglianze. Tra gli imprenditori spicca Leslie Christian, chief executive di Portfolio 21 Investment: “L’attivismo dei risparmiatori può scavalcare i ritardi dei governi nel promuovere uno sviluppo sostenibile per l’ambiente. Aumentano i fondi che escludono sistematicamente dai loro portafogli d’investimento le energie fossili e vanno in cerca di opportunità di lungo termine solo in aziende che hanno una strategia di riduzione nei consumi di risorse naturali”. Ray Carey, che è stato chief executive di Adt, affronta il problema che assilla l’esercito delle “pantere grigie”, la generazione del baby-boom che comincia adesso ad andare in pensione senza garanzie sui propri redditi futuri: “Un sistema di retribuzione degli amministratori dei fondi pensione, che vincoli i loro stipendi ai risultati di lungo termine”. Le 13 idee sono riforme a costo zero, non richiedono nuove risorse pubbliche, spesso anzi le fanno risparmiare (come lo sfoltimento dei privilegi fiscali per la rendita finanziaria). Ignorarle significa rassegnarsi a “un’economia patologica, una finta ripresa, con salari declinanti, debito pubblico e debito estero in aumento, il ceto medio che s’impoverisce”. In comune, gli autori che hanno raccolto la sfida da The Nation hanno la caratteristica di pensare “out of the box”, fuori dalle consuetudini, ribellandosi alla pigrizia mentale. Sono a tutti gli effetti degli imprenditori sociali, pionieri dell’innovazione nella migliore tradizione americana. Il più grosso sforzo che si richiede per reinventare il capitalismo, è “immaginazione morale e spirituale”. Questo serbatoio mostra di essere ancora abbondante in America, non aspetta che arrivi il nulla osta dall’alto per mobilitarsi e sperimentare.

Per Soros monete deboli presto fuori dall'euro !!

Torino, 27 giugno 2011

Se fosse vero ... sarebbe traumatico ...ma non ci credo !!!!!!
Soros: quasi inevitabile uscita dall'euro dei paesi deboli. All'Ue serve un piano alternativo
(da il Sole 24ore online di oggi)
Ormai da più di un anno c'è chi vuole vedere il rapporto 1:1 euro/dollaro.
Troppa frenesia, troppo volontà di remare contro !!
Per molti media da mesi la musica è sempre la stessa. Ma a mio modesto avviso sono più forti le ragioni "politiche" dell'Europa nel tenere uniti gli Stati della zona euro (in previsione tra l'altro di nuove adesioni)  sottolineando che gli Usa a fronte di una crescita lenta continuano a far aumentare il debito. 
E alla fine parla di un Piano B che forse non è ancora nero su bianco sulla carta ma che è nel DNA dell'Europa che DEVE PER FORZA SOPRAVVIVERE A SE' STESSA !!!!
Ma vediamo la posizione di Soros:
L'Europa dovrà introdurre presto un meccanismo che consenta alle economie più deboli a uscire dall'euro. Lo ha detto il finanziere George Soros ieri a un panel a Vienna dove ha definito questa prospettiva «nelle attuali circostanze, probabilmente inevitabile», come riporta l'agenzia Bloomberg. Per Soros, 80 anni, creatore e presidente del Soros Fund Management con oltre 28 miliardi di dollari di asset, «siamo vicini a un disastro economico che dovrebbe iniziare, possiamo dirlo, in Grecia, ma che potrebbe facilmente espandersi. Il sistema finanziario rimane estremamente vulnerabile».
Sui mercati pesano i timori che la Grecia (terzo paese a ricevere gli aiuti internazionali oltre a Irlanda e Portogallo) non approvi il nuovo piano di austerità, necessario per ottenere nuovi fondi ed evitare il default. Una preoccupazione che ha spinto l'euro ai minimi storici contro il franco svizzero nella settimana appena trascorsa.  La Grecia tiene i mercati sotto pressione. Wall Street incerta. Tensione sui titoli di Stato: record nel divario tra Btp e Bund. Giù euro e petrolio. Asta Bot con rendimenti superiori al 2%.
Vedi tutti » «Credo che la maggior parte di noi sia concorde nel vedere nell'euro la crisi dell'Europa», ha precisato Soros. «È un tipo di crisi finanziaria in continua evoluzione. Un crisi attesa. Molti se ne sono accorti. Le autorità stanno cercando di prendere tempo, ma questo giocherà a loro sfavore»
Soros è diventato famoso oltre che ricchissimo per avere scommesso nel 1992 un miliardo di dollari contro la sterlina che in effetti, prima dell'arrivo ell'euro, ha dovuto uscire dall'allora sistema di cambi europeo. Quello di ieri non è stato il suo primo allarme. Già lo scorso gennaio al World Economic Forum di Davos in Svizzera, Soros aveva manifestato preoccupazione per la tenuta della moneta unica sollecitando le autorità europee ad affrontare il problema della loro economia a due velocità, pena il collasso dell'euro.
Il piano B
Se la Grecia non dovesse approvare il piano di austerità da 78 miliardi di euro, il rischio default con contagio a Irlanda, Spagna e Portogallo diventerebbe molto concreto. Ma siccome la sopravvivenza dell'euro, secondo Soros, «è vitale per tutti noi» per affrontare la crisi «è necessario un piano B alternativo che al momento non esiste» e che potrebbe richiedere «più tasse e garanzie per il sistema bancario da parte delle istituzioni europee».
Comunque Sorios, quello che nel '92 mise in crisi la sterlina, è figlio del famoso SISTEMA FINANZIARIO GLOBALE (HEDGE FUNDS IN PRIMIS E ALTRI) per il quale si invoca una riscruttura delle regole internazionali ..... ma quando e chi avrà la forza di combattare lobbies così potenti ???

Ancora in crisi l'economia Usa

Torino, 23 giugno 2011

Rischio deflazione negli Usa. Ecco quanto dichiara la Fed e riportato in un articolo de Il sole 24 ore online di oggi.
La Federal Reserve ha lasciato i tassi d'interesse invariati per sostenere la ripresa Usa, che continua a essere al rallentatore. Il Federal Open Market Committee, il comitato di politica monetaria della banca centrale, ha votato all'unanimità per lasciare i tassi tra lo 0 e lo 0,25 per cento «per un periodo esteso». Nella nota diffusa ai mercati la Fed ha affermato che «la ripresa continua a ritmo moderato, più basso delle attese».uanto ai rischi di una ripresa dell'inflazione la Fed ha reso noto che a suo giudizio «le aspettative di inflazione a lungo termine rimangono stabili». La Fed ha tagliato le stime sulla crescita e rivisto al rialzo quelle sull'inflazione "core" e sull'andamento dell'occupazione. Per il 2011, la Banca Centrale americana attende ora una crescita del prodotto interno lordo tra il 2,7 e il 2,9%, meno del range tra il 3,1 e il 3,3% stimato in precedenza. Quest'anno il tasso di disoccupazione dovrebbe attestarsi all'interno di una forchetta tra l'8,6 e l'8,9%, più del range tra l'8,4 e l'8,7% precedente. Per quanto riguarda l'inflazione, il tasso si dovrebbe attestare tra il 2,3 e il 2,5%, contro il range tra il 2,1 e il 2,8% precedente, mentre per la componente "core", quella epurata dalle componenti più volatili come i prezzi di energia e generi alimentari, le stime sono ora per un range tra l'1,5 e l'1,8%, più della forchetta tra l'1,3 e l'1,6% precedente.



Quantitative easing

La banca centrale non ha indicato alcuna intenzione di rinnovare il programma di stimolo aggiuntivo all'economia tramite l'acquisto di buoni del Tesoro americani. Finirà quindi con il mese di giugno, senza essere rinnovato, il programma straordinario di acquisto di 600 miliardi di dollari di titoli del debito pubblico. Tuttavia, rimarranno a bilancio della Fed anche gli oltre 2.830 miliardi di titoli attualmente nel portafoglio. La banca centrale reinveste gli introiti da titoli in scadenza per acquistare buoni del Tesoro.



A tal proposito secondo Bill Gross, manager di Pimco, il fondo obbligazionario più grande del mondo (che oggi ha indicato il default della Grecia come inevitabile), la Fed dovrebbe lanciare ad agosto un piano di quantitative easing 3 per iniettare nuova liquidità nel sistema.



Il discorso di Bernanke

La crisi del debito greco potrebbe rappresentare «un rischio per l'economia globale». Lo ha detto il presidente della Federal Reserve Ben Bernanke, durante la conferenza stampa a commento della decisione della Banca Centrale di lasciare i tassi. Secondo Bernanke, la situazione in Grecia «è molto importante e molto difficile» e i Paesi europei «comprendono che è incredibilmente importante trovare una soluzione» alla crisi. Dal canto suo, la Fed è «molto ben informata» sulla situazione. Bernanke ha inoltre precisato che un «default della Grecia avrebbe un impatto limitato» sulle banche americane, che hanno «un'esposizione limitata al debito greco», ma gli effetti di un default sarebbero «abbastanza significativi»

Sulla situazione economica interna, il presidente della Fed ha sottolineato che la crescita negli Usa sta continuando «moderatamente«, che il tasso di disoccupazione, oggi al 9,1%, dovrebbe scendere, anche se lentamente, nei prossimi mesi. Ha aggiunto che che la ripresa «inizierà nel 2012, ma a un passo più lento di come avevamo previsto ad aprile»; che gli Stati Uniti non corrono più il rischio deflazione; che i tassi di interesse rimarranno a livelli eccezionalmente bassi per un periodo prolungato, ovvero almeno 2 o 3 riunioni del Fomc. Non ha escluso nuove azioni della Fed a sostegno dell'economia se sarà necessario ed ha ribadito l'urgenza di affrontare il problema del deficit e del debito americano.

L'espansione della Cina nel mondo. Soccorso all'Europa

Torino, 17 giugno 2011

Come più volte ricordato non sottovalutiamo l'importnaza dell'espansione dei capitali cinesi (in euro) in Europa e non solo (vedi Africa e America del Sud).
Da La Stampa online di oggi
La Cina torna mostrarsi pronta a dare una mano all'Europa contro la crisi sui debiti, ma ora accompagna le sue manifestazioni di solidarietà a richieste nemmeno tanto velate su visti e permessi di lavoro da concedere al personale delle imprese cinesi che vogliono operare in Europa. Non che da Pechino le due cose vengano esplicitamente collegate come contropartite l'una dell'altra, ma nell'attento gergo diplomatico di vari esponenti del regime cinese - nell'imminenza di un viaggio di Stato del premier Wen Jiabao la prossima settimana in diversi paesi europei, tra cui la Germania - difficilmente si creano coincidenza involontarie. Oggi da un lato messaggi rassicuranti sull'Europa sono giunti dalla vice ministro degli Esteri, Fu Ting, che ha ribadito la volontà della Cina di investirvi, ma la stessa ha anche colto l'occasione per avanzare alcuni appunti all'atteggiamento "non favorevole" che "alcuni esponenti politici europei" hanno nei confronti delle imprese cinesi. Ancora più esplicito il vice direttore del dipartimento Affari europei del ministero degli Esteri, Wang Zhimin: che ha parlato di "problemi" che "si ripercuotono sull'entusiasmo delle imprese cinesi sugli investimenti in Europa. Attualmente - ha aggiunto - uno dei problemi principali per le nostre imprese è costituito dai visti e dalle autorizzazioni sul lavoro". Ieri, alla seconda giornata di alta tensione di mercato sulla crisi del debito della Grecia, un portavoce degli Esteri, Hong Lei, era intervenuto con rassicurazioni, affermando che la Cina resta un "investitore di lungo termine" sui bond europei. Materialmente significava segnalare ai mercati che Pechino è potrebbe muoversi per sostenere le emissioni dei paesi europei. Non è la prima volta che nelle situazioni difficili la Cina si fa avanti con rassicurazioni sull'Europa. A favorire questi slanci 'solidaristici' potrebbe contribuire la circostanza che ormai da anni il Vecchio Continente rappresenta il primo mercato di sbocco del gigantesco export cinese, che potrebbe risultare danneggiato quindi dall'eventualità di un deterioramento del quadrio economico Ue. (fonte Afp)

Grecia: a rischio le banche francesi

Da: http://affaritaliani.libero.it/economia/euro_debito_grecia_banche_francia15062011.html

Banche francesi nel mirino dell'agenzia di rating Moody's dopo il fallimento degli ultimi colloqui tra i partner dell'Unione Europea sul secondo piano di salvataggio di Atene. L'agenzia a stelle e strisce ha comunicato infatti che potrebbe tagliare il rating del Credit Agricole, Bnp Paribas e Societè Generale a causa della loro esposizione verso la Grecia.
Moody's ha spiegato che il merito di lungo termine del Credit Agricole (Aa1) e di Bnp Paribas (Aa2) potrebbe essere ridotto di un gradino mentre quello di Societe Generale (Aa2) di due.
Come dimostra anche l'andamento borsistico del settore, la situazione del sistema bancario europeo, francese e tedesco in primis, continua dunque a esser sollecitato dalla crisi dell'euro-debito.
Gli istituti maggiormente esposti con il debito di Atene sono ovviamente quelli ellenici che, secondo quanto ha rivelato il Financial Times, necessiterebbero di almeno 20 miliardi di euro per esser ricapitalizzate. Livello di aiuti attualmente allo studio dei governi dell'area euro. Secondo il quotidiano della City londinese l'ulteriore iniezione di liquidità è legata al piano di salvataggio della Germania, che prevede la partecipazione dei creditori privati. Una mossa che costringerebbe le agenzie di rating a classificare l'estensione delle scadenze sul debito greco come "default selettivo". Secondo il FT i ministri delle finanze europei starebbero valutando tre opzioni per il coinvolgimento del settore privato nel nuovo programma di aiuti. La più drastica prevede uno scambio volontario del debito con un'estensione delle scadenze dei bond per consentire ad Atene di guadagnare tempo e fare i conti con la crisi del debito. Il ministro delle Finanze tedesco, Wolfang Schaeuble, suggerisce un'estensione di 7 anni. I ministri europei, come si legge nella bozza discussa a Bruxelles ed entrata in possesso del FT, calcolano che se il 100% dei creditori aderisse a questa proposta ciò "eliminerebbe virtualmente la necessità di un finanziamento ufficiale" per i prossimi 5 anni e mezzo. La seconda e la terza opzione riguardano, invece, proposte tipo l'iniziativa di Vienna e cioe' una sostituzione volontaria dei titoli in scadenza, che renderebbe meno probabile il rischio di un default. Queste due opzioni sono appoggiate dalla Bce e dalla Francia, mentre Berlino è più propensa a puntare sulla prima opzione. Intanto il Paese ellenico è tornato in piazza per l'ennesimo sciopero generale, indetto dalle due principali forze sindacali Adedy e Gsee, contro le misure di austerity decise dal governo Papandreou per rispondere alle condizioni del piano di salvataggio UE-Fmi. E' il terzo dall’inizio dell'anno. Si sono fermati porti, ospedali, giornali, banche e compagnie di stato. L'esecutivo deve far passare in Parlamento il piano quinquennale da 78 miliardi di euro, può contare su una maggioranza risicata di sei voti e anche tra le file del Pasok, i partito socialista, serpeggiano malumori e dissensi. "Questo governo - ha detto ieri il portavoce dell'esecutivo, George Petalotis, in vista dello sciopero - ha la responsabilità di salvare il paese dal default".

Rapporto della Financial Stability Review: è ancora allarme !!

Torino, 15 giugno 2011
Interessante da riproporre il Rapporto della Financial Stability Review letto oggi e sintetizzato anche su La Stampa online:
Il quadro della stabilità finanziaria nell’area euro «è rimasto molto impegnativo» e per il terzo anno consecutivo dopo la crisi del 2008 «i rischi sono ancora prevalenti». L’allarme è della Banca centrale europea, che nella sua Rapporto della Financial Stability Reviewnota come le difficoltà per il programma di consolidamento della Grecia «sono cresciute» rispetto al rapporto dello scorso dicembre. Il rischio principale, secondo Francoforte, è la stretta interconnessione fra i il settore pubblico e le banche, che hanno ampie fette di titoli di Stato periferici in portafoglio: una situazione che ha «il potenziale per creare effetti di contagio».
La seconda criticità si riferisce «ai problemi di raccolta del sistema bancario e la volatilità nei costi della provvista». La terza «alle perdite per le banche, in particolare dal declino dei prezzi negli immobili commerciali e residenziali in alcuni paesi dell'Eurozona». La quarta «ai rischi associati da inattesi aumenti dei tassi di interesse a lungo termine con possibili implicazioni negative per le istituzioni finanziarie». La quinta «alle tensioni nei flussi internazionali dei capitali, nella crescita dei prezzi delle attività nei paesi emergenti e i rischi associati con il riemergere degli squilibri globali».
Osservata speciale, ovviamente, Atene. Una ristrutturazione del debito greco ha «conseguenze potenzialmente molto pericolose» per il Paese e per il suo sistema bancario, dice la Bce, che invita una ristrutturazione del debito greco ha «conseguenze potenzialmente molto pericolose» per il Paese e per il suo sistema bancario.

La vergogna del non intervento sulla Siria: più di mille vittime

Torino, 12 giugno 2011
Siria, repressione «raccapricciante». Stati Uniti e Onu: violenze cessino immediatamente. Ma spesso queste invocazioni restano lettera morta. Nessuno vuole intervenire in Siria per non spezzare delicati equilibri. Ma vi sembre giusto? E' leggitimato invece un intevento in Libia senza che si parli di cordoni umanitari ma anzi colpendo, involontariememente, dei civili.
E' tale la convizione per questa guerra che la Norvegia che ha inviato sei caccia F-16 per contribuire ai bombardamenti in Libia ha annunciato che metterà fine alla sua partecipazione alle operazioni aeree dal 1 agosto due mesi prima della scadenza dell'attuale mandato della Nato.
Vi propongo due scritti uno di ieri su Il sole 24 ore online e l'altro di qualche giornio fa di Antonio Socci sul suo Blog a proposito della Libia. Ne vale la pena riflettere !!
1) Siria, repressione «raccapricciante». Stati Uniti e Onu: violenze cessino immediatamente
La Casa Bianca ha chiesto la «fine immediata» delle violenze in Siria condannando la repressione «raccapricciante» guidata dalle forze siriane, che hanno ucciso almeno 25 civili durante le manifestazioni anti-regime. «Gli Stati Uniti condannano con fermezza l'uso terribile della violenza da parte del governo siriano», ha detto il portavoce della presidenza americana, Jay Carney, in un comunicato aggiungendo che «la violenza e le brutalità dovranno cessare immediatamente».
«All'inizio di questa settimana abbiano invitato il governo siriano a dare prova di massima moderazione - continua la Casa Bianca - e a non rispondere alle perdite dei propri ranghi facendo altre vittime civili». «Il governo sta conducendo la Siria attraverso un cammino pericoloso - avvertono gli Stati Uniti -. Le forze di sicurezza continuano a sparare, ad attaccare e ad arrestare i manifestanti, mentre i prigionieri politici restano ancora detenuti». «È un genere di violenza scioccante - si legge nel comunicato - che costringe gli Stati Uniti a sostenere una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell'Onu che condanni le azioni del governo siriano e chieda la fine immediata della violenza e delle violazioni dei diritti fondamentali dell'uomo».
Ban Ki-moon, inaccettabile uso forza militare. Il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, ha definito «inaccetabile» l'utilizzo della forza militare da parte del regime siriano contro i civili e si è detto «profondamente preoccupato» dalle violenze che proseguono nel Paese. «Le autorità siriane hanno l'obbligo di proteggere il loro popolo e di rispettare i loro diritti», ha detto Ban Ki-Moon attraverso il portavoce Martin Nesirky. (Ansa)
2) Da tre mesi siamo in guerra e tutti tacciono. Dove sono i paladini della pace? E Napolitano…..
C’è una guerra in corso da tre mesi, i bombardieri della Nato tuonano giorno e notte, ma dove sono i giornalisti di denuncia, i Santoro, i Lerner, i Floris e dove sono l’Annunziata e la D’Amico?
Dov’è la schiena diritta del giornalismo sedicente libero, quello che chiama “servi” tutti gli altri? Sarei curioso anche di sentire la saggia voce di spiriti liberali come Paolo Mieli o Ernesto Galli della Loggia. Invece sono diventati tutti muti. A cosa si deve questo improvviso silenzio collettivo? E’ vero che il 26 aprile scorso si poteva leggere sul “Corriere della sera” che “il Colle sostiene i bombardamenti” con l’opposizione di sinistra tutta allineata dietro Napolitano (il governo già si era dovuto adeguare). E che anche mercoledì scorso, al vicepresidente americano Biden, Napolitano ha ripetuto che l’Italia è “fianco a fianco” con gli Usa nella vicenda libica. Ed è vero che il compagno-presidente con tale entusiastica adesione ai bombardamenti “umanitari” è diventato il riferimento privilegiato della Casa Bianca, relegando di fatto l’indebolito e incerto Berlusconi (che ha dovuto seguirlo nell’impresa) a un ruolo di secondo piano. Ma la stampa avrebbe almeno il dovere di raccontare ciò che sta accadendo. Invece niente. Un autobavaglio così totale non si era mai visto. Eppure ogni notte i bombardieri Nato colpiscono duro.
Il Vicario apostolico di Tripoli, monsignor Giovanni Martinelli, implora instancabilmente di smetterla con le bombe. Ha dichiarato ad Asianews:
“La Nato ha intensificato i bombardamenti e continua a fare vittime. I missili stanno cadendo ovunque e purtroppo non colpiscono solo zone militari, ma anche civili. La gente a Tripoli soffre, anche se nessuno ne parla”. Nell’ultima settimana il vescovo ha denunziato il bombardamento di un ospedale, di un quartiere popolare e di una chiesa cristiana copta. Ma non c’è traccia di tutto questo sui giornali e in tv. Nessuno fa una piega. Nessuno s’indigna. Nessun programma tv, nessun editoriale.
Non si vede in giro neanche una bandiera arcobaleno alle finestre (tranne che per i 150 anni !! ndr). E dire che solo qualche anno fa avevano riempito l’Italia. Ma a quel tempo si trattava di protestare contro Bush, mentre oggi a bombardare è il Premio nobel per la pace nonché democratico Obama.
Dunque oggi niente manifestazioni e niente marce Perugia-Assisi. Tutte le anime belle dormono un sonno profondo.
All’inizio di tutto, in marzo, della guerra parlò Lerner con “L’Infedele” e mi capitò di assistere incredulo al memorabile elogio della Francia dei bombardieri: ci fu addirittura chi – col plauso di Gad – ebbe la faccia tosta di affermare che il governo francese in questo modo testimoniava la sua imperitura volontà di affermare dovunque i valori umanitari della rivoluzione francese, di cui invece al governo italiano non importava niente.
Curioso paradosso perché i francesi affermavano quei presunti ideali umanitari bombardando i libici, mentre le autorità italiane – accusate di insensibilità perché ancora restie a bombardare – si stavano prodigando a soccorrere migliaia di rifugiati arrivati disperatamente a Lampedusa anche per fuggire dalla guerra “umanitaria” dei francesi.
Dunque dal buon progressista le bombe francesi furono giudicate umanitarie, mentre i soccorsi italiani erano disumanitari. Che grande esempio di giornalismo.
Tutti sanno che in realtà gli ideali umanitari non c’entrano niente con la guerra, tanto è vero che nessuno si sogna di andare a bombardare Damasco dove il regime compie quasi ogni giorno stragi contro i manifestanti. Tanto meno si pensa di andare a bombardare Pechino perché il regime cinese stroncò nel sangue le manifestazioni di piazza Tien an men o perché continua a spedire nei lager gli oppositori.
A proposito, neanche Napolitano si sogna di prospettare spedizioni militari contro quei due paesi, che egli peraltro visitò nel 2010 dando la mano a quei despoti (provate a rileggervi anche i discorsi molti amichevoli fatti in quella sede). Ma allora perché questa smania di francesi e inglesi (che hanno il colonialismo nella loro storia) e poi degli americani, di sostenere una sorta di colpo di stato interno alla nomenclatura libica e spedire bombardieri sulla Tripolitania?
Secondo Angelo del Boca, storico ed esperto delle vicende libiche, “le vere ragioni di questa guerra sono il controllo dei pozzi di petrolio e i 200 miliardi di dollari dello Stato libico depositati nelle banche straniere”.
Non so dire se queste sono “le vere ragioni”, ma di sicuro non si può continuare a gabellarci la favoletta dell’intervento umanitario. Sarebbe il caso che la stampa raccontasse quello che sta accadendo e scavasse alla ricerca delle “vere ragioni” della guerra.
Invece da settimane non si legge un solo articolo sulla tragedia della Libia. E quando ne appare qualcuno è peggio che mai. E’ il caso del reportage da Tripoli pubblicato ieri a tutta pagina sul “Corriere della sera” a firma Lorenzo Cremonesi: spiace dirlo, ma sembrava quasi un inno ai bombardieri.
Si riportavano queste testuali dichiarazioni (rigorosamente anonime): “Brava Nato. Continui così”.
Possibile che l’inviato del Corriere sia riuscito a pescare proprio i pochi – guarda caso anonimi – che sono felici di venire bombardati ogni giorno e anzi chiedono di essere bombardati più intensamente?
Chissà perché non ha parlato con monsignor Martinelli e chissà perché non è andato a vedere gli effetti di quei bombardamenti, ascoltando le vittime. In tv del resto la guerra proprio non esiste.
C’è un colossale problema di informazione sulla vicenda libica. Gli Usa, i francesi e gli inglesi, con le autorità militari della Nato ormai fanno mera propaganda. Dice Del Boca: “Gli alti costi dell’operazione contro Gheddafi hanno trasformato un conflitto lampo in una guerra di fandonie fatta dai media”.
Mi ha colpito quanto ha scritto su Asianews padre Piero Gheddo, il decano dei missionari italiani, un uomo di Dio per nulla incline al pacifismo ideologico e al settarismo di sinistra, basti dire che fu tra i primi, negli anni Settanta, a denunciare i crimini dei Khmer rossi di Pol Pot in Cambogia, svergognando certi media e certa sinistra italiana ancora intrisa di antiamericanismo.
Dunque l’altroieri padre Gheddo ha scritto:
“Le anomalie di questa guerra di Libia sono infinite e dimostrano che anche in Occidente soffriamo di una disinformazione colossale.
L’intervento umanitario iniziale sta assumendo i contorni di un crimine di stato. L’Onu aveva giustificato la ‘No fly zone’ per impedire che gli aerei libici bombardassero i ribelli della Cirenaica.
Ma in pochi giorni le forze aeree della Libia vennero facilmente azzerate. Poi si è passati a bombardare i mezzi militari di terra che avanzavano verso Bengasi e si continua, da più di due mesi, a bombardare le città della Cirenaica, non per proteggere il popolo libico da Gheddafi, ma per la ‘caccia all’uomo’ Gheddafi, il che sta scavando un abisso di odio e di vendetta fra le due parti del paese, Tripolitania e Cirenaica, che erano e sono pro o contro il raìs”. Padre Gheddo ha poi citato il generale Anders Fogh Rasmussen segretario generale della Nato che “ha definito i bombardamenti come parte dell’intervento umanitario per proteggere il popolo libico! Ci vuole una bella faccia tosta, a mentire in modo così smaccato!”, ha tuonato il missionario.
“Chi mai può credere che i quotidiani bombardamenti su Tripoli sono fatti per difendere il popolo libico? Ecco perché stampa e Tv occidentali non parlano più della guerra in Libia. Non sanno più come giustificare una così evidente violazione dei diritti umani”. L’assurdo poi è che la trattativa per far uscire di scena Gheddafi in modo incruento sarebbe stata possibile, ma proprio gli “umanitari” l’hanno uccisa sul nascere. Per quanto deve continuare questa guerra? E il nostro silenzio ?






Italiani non più formiche: debiti boom e crollo del risparmio

Torino, 12 giugno 2011
Per noi italiani da sempre abituati ad essere un popolo risparmiatore e all'onor del mondo, con il Giappone, a concerdici il palmares dei più "risparmiosi" al mondo i dati Adusbef (su fonte Banca d'Italia) dicono che sia anche noi un pò malmessi...certamente complice la crisi 2008 e dintorni, l'alto tasso di disoccupazione, soprattutto quello giovanile (intorno al 28%) !!.
Da Il Sole 24 ore online di ieri riproponiamo volentieri l'analisi e il commento.
Le famiglie pagano il conto della crisi 2006-2010
La crisi ha cambiato le consuetudini delle famiglie italiane, che per far fronte alle difficoltà si ritrovano ad essere sempre più cicale e sempre meno formiche. Dal 2006 al 2010, il quinquennio nero dell'economia, i debiti sono schizzati in alto e i risparmi hanno messo a segno un vero e proprio tonfo. A dare le cifre sulla trasformazione dei bilanci familiari è l'Adusbef che, elaborando dati della Banca d'Italia, calcola che le passività sono cresciute del 55% (passando da 595,6 a 923,3 miliardi di euro) e contemporaneamente le risorse messe da parte si sono quasi dimezzate, segnando una discesa del 49% (da 60 a 30,6 miliardi).
Spesso la causa delle difficoltà sta nell'acquisto dell'abitazione. Infatti, lo studio spiega come il peso della passività sulle spalle delle famiglie risente «dell'impennata dei debiti a medio e lungo termine», che sono cresciute nei cinque anni di oltre la metà (da 425,6 a 643,4 miliardi di euro). E una buona parte deriva dai mutui per la casa. Ma in tempo di crisi diventa più difficile rispettare le scadende delle rate, ecco che l'associazione a tutela del consumatore sottolinea come dal 2006 al 2010 sia «notevolmente» aumentato il numero delle famiglie in difficoltà nell'onorare i propri impegni. Complessivamente le sofferenza sono salite del 46,9%.
Sempre a doppia cifra è anche il tonfo dei risparmi, che diventa ancora peggiore se si fa riferimento all'arco temporale che va dal 2002 al 2010 (-67,75%). Ma anche solo guardando al 2010 la discesa e stata del 26,6% rispetto al 2009. Insomma fanno notare il presidente Adusbef, Elio Lannutti, e il segretario dell'associazione, Mauro Novelli, che hanno curato lo studio, «il risparmio privato declina velocemente al perdurare della crisi finanziaria internazionale e - aggiungono - un numero sempre maggiore di famiglie in difficoltà vede chiudersi il canale bancario e deve far ricorso alle finanziarie, a tassi crescenti».
Il confronto con gli altri Paesi vede comunque ancora l'Italia in una posizione di vantaggio, nello studio si legge come «pur cresciuti dal 2004, i nostri debiti privati del 2010 superano appena il 60% del reddito disponibile», mentre le famiglie francesi si avvicinerebbero all'80%, le tedesche al 90%, la Spagna si avvicina al 110 % e ancora peggio fanno i Paesi anglosassoni. Ma, l'Adusbef esprime comunque preoccupazioni per il futuro: «Non sappiamo per quanto durerà ancora questa situazione. Certamente le finanze familiari, che rappresentano l'unico nostro baluardo finanziario, stanno velocemente dando fondo sia ai risparmi accantonati per far fronte a situazioni di criticità, sia al merito di credito conquistato in decenni di corretta ed accorta gestione economica».






Vino, l'Italia supera la Francia: è il primo produttore al mondo

Torino, 12 giugno 2011
Essere primi in qualcosa è  sempre un titolo di merito e se si è leader in qualcosa di positivo è oltre un titolo di vanto anche di riconoscimento sulle capacità di unire lo sviluppo alla qualità !!
Riproponiamo quanto scritto su La Stampa online di ieri.

Prodotti 49,6 milioni di ettolitri - I transalpini fermi a 46,2 milioni
Con i risultati finali dell'ultima vendemmia l'Italia è diventata il principale produttore di vino al mondo grazie al sorpasso di misura messo a segno nei confronti della Francia che deteneva il primato. Lo ha reso noto la Coldiretti, sulla base dei dati della Commissione europea che rilevano una produzione di 49,6 milioni di ettolitri per l`Italia superiore ai 46,2 milioni di ettolitri realizzata dalla Francia, su un totale comunitario di 157,2 milioni di ettolitri in calo del 3,7 per cento.
"Il primato del Made in Italy viene confermato - ha sottolineato la Coldiretti - anche se si considerano i valori italiani al netto della feccia stimabile in un 5 per cento. Il risultato è il frutto di una sostanziale stabilità della produzione in Italia e di un calo in Francia". Il 60 per cento della produzione nazionale è rappresentata da vini di qualità con ben 14,9 milioni di ettolitri sono destinati a vini Docg/Doc e 15,4 milioni di ettolitri a vini Igt. Un risultato incoraggiante arriva anche- sul lato delle esportazioni che sono aumentate del 15 per cento nel primo bimestre del 2011.
"Si tratta - ha sottolineato Coldiretti - del risultato di una crescita record del 31 per cento negli Stati Uniti, che diventano il primo mercato di sbocco in valore davanti alla Germania, ma anche dell`aumento del 6 per cento nell`Unione Europea e di un significativo e benaugurante incremento del 146 per cento in Cina. Gli Stati Uniti sono diventati per la prima volta il Paese dove si consuma complessivamente la maggior quantità di vino al mondo davanti rispettivamente a Francia ed Italia, secondo il report di Gomberg-Fredrikson nel 2010, durante il quale gli americani avrebbero consumato 329 milioni di casse da 12 bottiglie in mercato che, solo nel canale retail, vale 30 miliardi di dollari".
Un andamento che conferma i risultati positivi ottenuti dal vino Made in Italy all`estero nel 2010 con un valore record dell`esportazioni di 3,93 miliardi che ha superato per la prima volta i consumi nazionali. Peraltro le esportazioni di vino Made in Italy dei piccoli produttori sotto i 25 milioni di euro di fatturato sono cresciute in valore del 16 per cento, quasi il doppio dell`8,5 per cento fatto segnare dalle prime 103 società italiane produttrici di vino che fatturano piu` dei 25 milioni di euro, secondo una analisi della Coldiretti sulla base dei dati sul commercio estero nel 2010 di Mediobanca e dell`Istat.
Il fatturato complessivo realizzato dal vino italiano nel 2010 è stato pari a 7,82 miliardi anche grazie al fatto che l`Italia - conclude la Coldiretti - puo` contare su un numero di riconoscimenti superiore a quello dei cugini francesi con 504 vini a denominazione di origine controllata (Doc), controllata e garantita (Docg) e a indicazione geografica tipica (330 vini Doc, 56 Docg e 118 Igt).