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I titoli dei Post hanno un link di riferimento al tema trattato
Torino, 18 dicembre 2012

L' UK pronta per uscire da dalla UE ?
Non ancora ma......

www.parliament.uk
Europa sempre un pò scricchiolante. Saranno da prendere per buone le parole del leader inglese Cameron che ipotizza, se non più conveniente, l'uscita dell'UK dalla UE ? O è solo una minaccia/ricatto per evitare misure tipo Fiscal Compact o limitazione alla sua "sovranità" sulla finanza ?
Dal sito Dagospia che a sua volta riporta altra fonte ecco il testo:


Non voglio che la Gran Bretagna esca dall'Unione Europea, ma una sua uscita è "immaginabile": a dirlo è stato il primo ministro britannico David Cameron, parlando ai deputati, secondo quanto riporta il Telegraph. Durante un intervento alla Camera dei Comuni, alla domanda se è immaginabile una uscita della Gran Bretagna dall'Ue, il primo ministro conservatore ha risposto: "Ogni scenario per la Gran Bretagna è immaginabile, siamo artefici del nostro destino, possiamo fare le nostre scelte". Tuttavia, ha aggiunto, una eventuale uscita "non è la mia preferenza". "Credo che la scelta che dobbiamo fare sia di rimanere nell'Unione Europea - ha proseguito Cameron -, per essere membri del mercato unico, per massimizzare il nostro impatto in Europa, ma se fossimo insoddisfatti di questa relazione non dovremmo avere paura di alzarci e dire questo". Quelle di ieri sono le prime dichiarazioni di Cameron in cui si ipotizza una possibile uscita della Gran Bretagna dall'organizzazione di cui è membro sin dal 1973.

Il debito pubblico di mezzo mondo affosserà l'economia ?

Torino, 17 dicembre 2012

Se ci dobbiamo basare sulla possibilità di riportare il senso del "valore monetario" di scambio in termini più coerenti e realistici certamente dobbiamo appellarci ad una nuova Bretton Woods altrimenti non ne usciremo mai !! Basta leggere l'interessante articolo di Chiara Bussi su Il Sole 24 Ore di oggi per renderci conto che i soli debiti pubblici di mezzo mondo sono "Spazzatura".
Dunque qual'è la regola che tiene tutto in piedi ? Le convenzioni e le convenienze per evitare il crollo del sistema mondiale.
Ecco il perchè nell'articolo menzionato:



Mezzo mondo con rating "spazzatura". Mentre la crisi non concede tregua le pagelle aggiornate delle "sorelle" Moody's, Standard and Poor's e Fitch mostrano una raffica di insufficienze, più o meno gravi. Ben 68 Paesi hanno incassato un livello "junk" da parte di almeno un'agenzia di rating, 48 da almeno due e in 24 fanno l'en plein mettendo d'accordo tutte e tre. Agli esami di dicembre in 21 hanno superato le colonne d'Ercole perdendo la denominazione di investment grade. Per 33 va ancora peggio, tanto che sono in terapia intensiva a livello "non investment grade inferiore" e sotto monitoraggio costante. Per quattro Paesi – Grecia, Argentina, Belize e Pakistan – la malattia è grave e in fase quasi terminale. Restringendo il focus su ciascuna agenzia su 118 rating sovrani sotto la lente di Moody's 46 sono classificati come "junk". Sui 127 valutati da S&P in 57 hanno un giudizio insufficiente, per Fitch in 39 su 101 presenti sul registro di Fitch. Lontani anni luce dalla Germania, tra i pochi a resistere nell'Olimpo della tripla A. Mentre l'Italia vanta ancora A- da parte di Fitch, ma per S&P è BBB+ e per Moody's è Baa2, penultimo livello prima del "junk".
Alla conta finale dei rating "spazzatura" è un testa a testa tra Africa e America Centrale e Latina, ma a soffrire di più è ancora una volta la "vecchia Europa", vittima della crisi dell'euro che sta contagiando i Paesi vicini dell'Est. «Un dato preoccupante – spiega Marco Lossani, ordinario di economia dei Paesi emergenti all'università Cattolica – perché gli Stati europei sono quelli che hanno visto il merito di credito maggiormente deteriorato negli ultimi anni». La pecora nera a livello mondiale è la Grecia, alla prese con il piano di salvataggio internazionale. Per Moody's e S&P Atene è appena un gradino sopra la bancarotta conclamata e nonostante il nuovo accordo raggiunto in sede europea il suo debito viene ritenuto insostenibile. Del club, ma con un giudizio meno negativo, fa parte anche la vicina Cipro, che a ottobre ha chiesto aiuto ai partner Ue per evitare la bancarotta, incassando una bocciatura da parte delle tre agenzie. Il Portogallo, in cura dal 2011, ha inanellato una serie di riduzioni del rating negli ultimi due anni ed è entrato nella lista nera, anche se per il momento l'insufficienza non è grave. La più pessimista è Moody's che valuta Lisbona Ba3 con outlook negativo. «Il rating – ha sottolineato l'agenzia nell'ultimo rapporto sul paese – potrebbe essere ulteriormente ridotto se non proseguirà del debito nei prossimi tre anni o se il governo non riuscirà a mettere a segno le riforme strutturali annunciate». In risalita è invece l'Irlanda, che sta cominciando a intravedere la luce in fondo al tunnel: è già tornata a livello investment grade per S&P e Fitch e per Moody's è nel gradino più alto del territorio "junk" (Ba1). Nella lista dei sorvegliati compare anche l'Ungheria che mette d'accordo tutte e tre. Fitch, ad esempio, punta il dito sulle «politiche non ortodosse che minano la fiducia degli investitori» e sull'alto livello di debito estero. Del gruppo, secondo S&P, fa parte anche la Romania, che ha un sistema bancario per oltre l'80% in mano estera. A un passo dal fossato è la Spagna: per Moody's e S&P è all'ultimo gradino prima della retrocessione in zona "spazzatura". Devono poi accontentarsi di un giudizio sotto la sufficienza quasi tutti i Paesi dell'America centrale e latina ad eccezione degli emergenti sulla cresta dell'onda Brasile, Cile e Colombia. Qui Argentina e Belize raggiungono i gradini più bassi della scala di rating. «Il giudizio su questi Paesi – spiega Lossani – sconta anche la loro performance del passato caratterizzata da una propensione al default, tanto che vengono definiti serial defaulter. Basti pensare che negli ultimi 150 anni l'Argentina ha ristrutturato il proprio debito 4 volte e il Venezuela per ben 9 volte». Per Fitch, che a fine novembre ha tagliato il rating di Buenos Aires di ben cinque punti, il Paese è al livello "CC" con «un'alta probabilità che non riesca a ripagare il suo debito». Lo spettro del 2001 rischia di materializzarsi ancora. In Africa sono tra i peggiori della classe i Paesi in via di sviluppo, ma anche quelli travolti dalla primavera araba, come Egitto e Tunisia. «Il continente – dice Lossani – non cresce e resta isolato dal mondo. Ma sui giudizi, oltre alle motivazioni economiche, pesano le incertezze politiche e il lungo cammino ancora da compiere». L'anello debole è l'Africa subsahariana. In Asia a parte Giappone e Cina e le Tigri (Corea del Sud, Taiwan, Singapore e Hong Kong) hanno l'insufficienza in pagella tutti gli altri Paesi. Tra questi spiccano anche due membri del club dei Civets, gli emergenti del futuro: Indonesia e Vietnam. «La prima – conclude Lossani – paga un forte squilibrio nei conti con l'estero, la seconda è una Cina in piccolo, con il Partito al comando, ma anche un sistema bancario fragile».



L'Asia la tigre del mondo tra 15 anni !!

Torino 17 dicembre 2012

Interessante l'articolo apparso cinque giorni fa su "La Stampa" a proposito di "Scenari Futuri". E' vero che ci dobbiamo occupare del contingente vista l'aria che tira nma interpretare le dinamichew di medio - lungo termine serve a noi come Italia ma soprattutto come Europa a capire che policy intraprendere a livello di decisione del pubblico/istituzionale e delle politiche business oriented.
Ecco l'ottimo resoconto di Paolo Mastrolilli:



“Nel 2030 l’Asia dominerà il pianeta”

L’intelligence Usa tratteggia il ritratto del mondo fra meno  di due decenni: la Cina avrà superato gli Usa mentre l’Europa continuerà il suo lento declino
 

 Il dominio occidentale sul mondo è solo un ricordo. Il futuro, visto da un rapporto dell’intelligence americana, sistema l’Asia al centro del nostro universo. L’Italia, a sorpresa, riesce ancora a contare più di quanto pesi, ma è un vantaggio di posizione che siamo destinati a perdere. L’ economia cinese che sorpassa quella americana, e l’Asia che scavalca Europa e Nordamerica sommate assieme. L’ordine globale che dipende dall’alleanza tra Pechino e Washington, ma vacilla e mette a rischio la tenuta della globalizzazione, aprendola porta alle megalopoli che diventano attrici protagoniste sulla scena geopolitica internazionale. E poi la classe media in enorme espansione, che grazie alle nuove tecnologie accrescerà anche il potere diretto degli individui. La medicina in costante progresso, tanto che gli esseri umani saranno in grado di programmare e potenziare i loro corpi, cambiando pezzi come se fossimo dal meccanico. Il National Intelligence Council, organo accademico legato alla comunità dei servizi americani, ci tiene a sottolineare che il suo rapporto «Global Trends 2030: Alternative Worlds» non ha l’ambizione di prevedere il futuro, «perché non è possibile». Però, sfogliando le 160 pagine appena pubblicate, che sono costate circa quattro anni di lavoro, si ha l’impressione di entrare davvero in un mondo alternativo, nonostante le analisi puntino solo a capire quali saranno le grandi tendenze globali tra diciotto anni. Sul piano geopolitico, la novità fondamentale è già definita da tempo.La crescita in Cina frenerà e la popolazione attiva nel lavoro si stabilizzerà appena sotto il miliardo di persone, ma la Repubblica popolare scavalcherà comunque gli Usa come prima economia mondiale. Il vantaggio dell’America è che riuscirà a diventare indipendente sul piano energetico, e questo avrà un grande impatto politico perché diminuirà l’influenza del Medio Oriente, la Russia, il Venezuela. L’Europa continuerà il suo lento declino, provocato soprattutto dall’invecchiamento della popolazione, e in questo senso colpisce vedere l’Italia citata nel grafico a pagina 17, dove viene descritta come uno dei Paesi che al momento riescono ancora a contare sulla scena mondiale più del loro peso effettivo. Ma anche Germania, Francia e Gran Bretagna sono nella stessa condizione, e tutti perderemo terreno, se le nascite non smetteranno di calare. Politica e società dovrebbero abbracciare una nuova visione, un nuovo entusiasmo centrato sulla forza collettiva del nostro continente, per cambiare marcia. Sono tre gli scenari previsti per l’Europa: «Collapse», dove un’uscita disordinata della Grecia dall’euro provoca danni otto volte più gravi della crisi Lehman Brothers, e di fatto dissolve l’Unione; «Renaissaince», dove con un colpo di coda riusciamo davvero ad integrarci e avviare così un nuovo Rinascimento economico, politico e culturale; «Slow Decline», il più probabile galleggiamento verso il basso, pur conservando influenza.  L’Occidente comunque prederà la supremazia accumulata a partire dal ’700, e quindi il nostro tempo porterà un mutamento storico paragonabile a quello della Rivoluzione francese o la fine della Guerra Fredda. Alcuni Stati falliranno, con la classifica guidata da Somalia, Burundi e Yemen. Altri esploderanno ancora di più, tipo Brasile, India, Colombia, Indonesia, Nigeria, Sudafrica e Turchia. Il terrorismo islamico diminuirà, mentre gli sviluppi della Primavera araba apriranno le porte del potere ai governi a guida musulmana. I risultati continueranno ad essere contraddittori, come vediamo in questi giorni in Egitto, e l’esplosione di una guerra in Medio Oriente resta una delle minacce più gravi,soprattutto per le tensioni tra sunniti e sciiti. Però questi esperimenti,uniti al ridotto peso della regione sul piano energetico, potrebbero anche diminuire le tensioni.  Sul piano sociale, il fenomeno più significativo sarà la continua crescita della classe media. Questa tendenza, accompagnata dalla potenza delle nuove tecnologie, aumenterà sempre di più il potere degli individui. Gli Stati dovranno rassegnarsi ad un rapporto diverso con i loro cittadini, e in molti casi dovranno accettare di essere affiancati o soppiantati dalla società civile. Anche i progressi costanti della medicina daranno più forza agli individui, al punto che potremo programmare e migliorare i nostri corpi. Impianti di retina per potenziare la vista anche di notte, interventi neurologici per rafforzare memoria e velocità di pensiero. Ai computer, smartphone e tablet, si aggiungeranno veri e propri interfaccia tra cervello e macchine, in grado di accrescere le nostre capacità mentali oltre l’immaginabile, oltre l’umano. Affascinante e insieme pericoloso, questo nuovo mondo: ma come funzionerà? L’intelligence Usa prevede quattro scenari. Il peggiore si chiama «Stalled Engines»: Europa e Usa si fermano, si ripiegano su loro stessi, e la globalizzazione va in stallo. Poi c’è «Gini-Out-of-the-Bottle», ossia un mondo destabilizzato dall’ineguaglianza economica, dove può succedere di tutto, ma sicuramente aumentano i conflitti tra i singoli Stati. Si vira verso un moderato ottimismo con lo scenario «Non state World», in cui il peso degli Stati nazionali precipita, ma al loro posto emergono nuovi protagonisti responsabili, come le megalopoli dove vivranno due terzi della popolazione mondiale, che assumeranno la leadership su temi di interesse comune tipo ambiente e sviluppo. L’ipotesi preferita dall’intelligence americana, però, è la quarta, chiamata «Fusion»: qui Pechino e Washington diventano alleate, e lavorano insieme per guidare il mondo verso un futuro stabile e felice.

La Globalizzazione al contrario? Buon segno ?

Torino, 10 dicembre 2012


http://www.imf.org/external/index.htm
E' veramente interessante riflettere su questo ottimo articolo di Rampini su Repubblica e ripreso (in questo caso) dal sito Dagospia.
Se la globalizzazione ha portato benefici ai Paesi BRIC (Brasile, Russia, India, Cina e poi anche Sud Africa) grazie anche alle massicce delocalizzazioni operate dai tradizionali Paesi del G7 tra gli anni '90/primi anni del 2000 con conseguenze nefaste, non certo sugli utili aziendali, ma su molte dinamiche macroeconomiche interne degli stessi Paesi più industrializzati (calo degli investimenti, dei consumi +, per altri motivi, politiche di austerity riguardo al debito pubblico, alto tasso di disoccupazione, conseguente calo del Pil = recessione) non può che essere visto "COME UN MIRAGGIO NEL DESERTO" la notizia di una ricollocazione di nuovi  insediamenti manifatturieri in Usa.
E' solo da qui che possiamo tiraci fuori dalle sacche di un tunnel senza luce al fondo.
Ecco il testo:

Il tasso di disoccupazione è ai minimi da quattro anni (7,7 per cento). Per tutto il 2012 la creazione di nuovi posti di lavoro viaggia al ritmo di 150 mila ogni mese. Ci sarebbe già di che farci sognare. Ma dietro la ripresa americana c'è dell'altro: una rinascita della vocazione manifatturiera. Il revival del made in Usa è cominciato.

A sorpresa, smentisce quella "regola ferrea" della globalizzazione che dagli anni Novanta ha imposto di delocalizzare i mestieri industriali verso paesi a basso costo del lavoro: in Asia, in Sudamerica, o nell'Est europeo. «Dai due ai tre milioni di posti di lavoro nei prossimi cinque anni», è il traguardo che il Boston Consulting Group considera realistico per l'industria americana (esclusi i servizi).

Posti di lavoro domestici, sul territorio nazionale: colletti blu, tecnici, ingegneri della produzione. Una svolta inattesa. Anche se Barack Obama la persegue dall'inizio del suo mandato, la missione di "reindustrializzare l'America" sembrava a molti una chimera. E invece sta accadendo, con protagonisti illustri. Apple annuncia che riporterà alcune produzioni di computer negli Stati Uniti. Altre aziende informatiche l'hanno preceduta.
Tutte le case automobilistiche qui hanno ripreso ad assumere da oltre due anni. C'è perfino un ritorno di marche di abbigliamento, le prime che fuggirono verso l'Estremo Oriente. Elettrodomestici. Mobili. Macchinari. L'elenco dei settori contagiati da questa "ondata patriottica" è lungo. Ma le considerazioni politiche e d'immagine - che pure pesano - non bastano a spiegare questi segnali d'inversione di tendenza.

Vent'anni dopo il trattato Nafta (libero scambio nordamericano) e il mercato unico europeo che segnarono l'inizio della globalizzazione "versione 2.0"; undici anni dopo l'ingresso della Cina nell'Organizzazione mondiale del commercio, si sta aprendo una nuova fase? Per Harold Sirkin, che ha diretto lo studio per il Boston Consulting, «qualcosa sta cambiando nelle dinamiche dei costi relativi, coi salari cinesi che crescono velocemente, mentre i lavoratori americani mantengono una produttività quattro volte superiore». Il vantaggio di produttività è l'effetto un elevato volume d'investimenti da parte delle imprese. Il risultato: secondo questa ricerca, gli Stati Uniti possono riportare a casa 100 miliardi di Pil solo nell'attività manifatturiera.

È evidente la potenza simbolica di Apple. Per tante ragioni. Il colosso fondato da Steve Jobs oggi è la più grande società del mondo per il suo valore in Borsa. È identificata con il meglio della tecnologia americana, la capacità d'inventare e rinnovarsi continuamente, d'imporre trend e mode che contagiano il mondo, rivoluzionano il nostro modo di consumare informazioni, immagini, musica, o di comunicare fra noi. Proprio Apple, d'altra parte, aveva sancito in modo apparentemente irrevocabile la fine di una vocazione manifatturiera americana. Fa testo quella scritta che appare su tutti i suoi prodotti: "Designed in California. Assembled in China".

Come a dire: la Silicon Valley conserva una leadership nel progettare, concepire, disegnare. Ma la produzione di oggetti appartiene ad altre zone del mondo. Proprio Tim Cook, il successore di Jobs e attuale chief executive, fu il cervello strategico della "catena asiatica" di produzione, tra la Foxconn di Shenzhen e altre basi operative a Taiwan. Perciò colpisce che oggi sia Cook ad annunciare un primo investimento di 100 milioni per riportare negli Stati Uniti alcune produzioni («non solo assemblaggio», precisa) di computer Mac. Proprio quelli che abbandonarono la cittadina di Fremont (a sud di san Francisco) dieci anni fa.
«Abbiamo la responsabilità di creare occupazione nel nostro paese», dice Cook. La frase può suscitare il sospetto che si tratti di un'operazione politica, per ingraziarsi un'Amministrazione Obama rinvigorita dalla seconda vittoria elettorale. Tanto più che l'immagine di Apple è stata macchiata dai ripetuti scandali del suo fornitore cinese (abusi contro gli operai, catene di suicidi, scioperi). Ma gli esperti spiegano che c'è ancheuna logica economica dietro il "ritorno a casa".
Eventi come lo tsunami in Giappone o le inondazioni in Tailandia hanno messo in evidenza la fragilità di una catena logistica troppo dilatata. Dal controllo di qualità alla flessibilità nel rispondere a nuove condizioni di mercato, la prossimità al consumatore torna ad avere delle attrattive.
Se Apple fa sempre notizia, altri l'avevano preceduta, nel suo stesso settore. Hewlett Packard, che vende 50 milioni di personal computer all'anno, ne produce una parte a Indianapolis. «È importante poter soddisfare gli ordinativi del cliente americano in cinque giorni», spiega il suo vicepresidente Tony Prophet. Il leader mondiale dei microprocessori, Intel, ha fabbriche in Oregon e Arizona. Perfino la cinese Lenovo, che rilevò la divisione pc di Ibm, di recente ha assunto 115 operai come avanguardia di una nuova produzione in North Carolina. È un'inversione netta rispetto al 2008, quando alla vigilia della prima elezione di Obama la texana Dell chiuse la sua fabbrica di Austin per delocalizzare in Cina.

Altri settori confermano la tendenza. General Electric ha assunto operai qui in America per produzioni che vanno dai frigoriferi alle lavastoviglie, dalle lavatrici alle caldaie. Continental investe 500 milioni per una nuova fabbrica di pneumatici nella South Carolina, da 1.600 posti. La Ford ha assunto di recente altri 1.200 operai nel Michigan. Volkswagen e Honda hanno aumentato i loro organici nel Tennessee e nell'Indiana.
Nel settore dell'auto incidono le concessioni salariali fatte dal sindacato metalmeccanico durante l'ultima crisi. Alla General Motors e alla Chrysler la confederazione United Auto Workers ha accettato che i nuovi assunti guadagnino poco più della metà. Ma il rilancio delle assunzioni è stato possibile anche perché la "cura Obama" (auto più piccole e "verdi", tutela del potere d'acquisto attraverso le manovre anti-recessive) ha fatto ripartire il mercato di consumo, compresi gli acquisti di vetture.

Il caso più clamoroso è nell'abbigliamento.
Sulle orme di American Apparel, la startup di San Francisco American Giant diventa l'altra marca "tutta made in Usa". Grazie a una distribuzione fatta esclusivamente su Internet, taglia i costi d'intermediazione e così diventa competitiva con le fabbriche delocalizzate in Asia.
Cotone all'antica, zero poliestere, con queste ricette American Giant ha un tasso di redditività superiore a giganti come Levi's. Pubblicizza maglioni "fatti per durare una vita", e ha fabbriche solo dentro i confini nazionali. Fa impressione perché il tessile fu il pesce-pilota nelle delocalizzazioni.

La Banca mondiale conferma che qualcosa sta cambiando nei rapporti di forze e nell'equazione della competitività. La sua classifica sulle nazioni "dov'è più facile fare impresa" vede una rimonta degli Stati Uniti, mentre regrediscono India e Brasile. Tra i fattori chiave: il costo dell'energia continua a calare negli Stati Uniti; l'automazione riduce l'incidenza dei salari; l'immigrazione negli Stati Uniti ringiovanisce la forza lavoro e al tempo stesso garantisce una crescita costante della platea dei consumatori. Non guasta la politica del dollaro debole perseguita dalla Federal Reserve, che rende meno care le esportazioni made in Usa.
Qualche merito va pur dato a Obama, che della "ricostruzione industriale dell'America" fece una bandiera già quattro anni fa. «Le politiche contano - dice il capo dei suoi consiglieri economici Gene Sperling - perché dal sostegno alla ricerca tecnologica fino agli investimenti in infrastrutture, abbiamo fatto di tutto per aiutare questo circolo virtuoso».
Il ritorno dell'industria fa effetto valanga, attira emuli, inverte un processo di decadimento dell'intero tessuto industriale. Come sostiene Jared Bernstein che è stato il consigliere economico del vicepresidente Joe Biden: «Nulla è più distruttivo che lasciare milioni di lavoratori ai margini del processo produttivo, esposti al logoramento della loro capacità».



I Derivati: il male del nuovo millennio !!! IIa Parte

Torino, 27 giugno 2012
II Parte: I Derivati da Il Fatto Quotidiano di Matteo Cavallito del 11 giugno 2012
I derivati valgono 10 economie mondiali e la regolamentazione resta lontana

I Derivati "Valgono" 601 mila miliardi di dollari, 10 volte il Pil globale. A tanto ammonta il controvalore degli strumenti finanziari derivati scambiati nel Pianeta. A rivelarlo la Banca dei regolamenti internazionale nel suo bollettino trimestrale. Il segretario al Tesoro Usa Timothy Geithner invoca regole globali, un traguardo tuttora lontano
Nella gestione del mercato dei derivati occorre implementare norme più severe evitando di seguire “il tragico esempio” di una regolamentazione soft di scuola britannica. Il segretario al tesoro degli Stati Uniti Timothy Geithner non ha certo usato mezze parole per esprimere quello che evidentemente è un concetto che gli sta profondamente a cuore. Responsabile forse numero uno della crisi finanziaria – o per meglio dire della sua diffusione dalla California all’Islanda fino ai mercati emergenti e all’Europa continentale – la finanza strutturata continua a destare i peggiori timori agli occhi degli analisti. E sì, perché alla luce dei dati odierni non traspare soltanto come la crisi mondiale non sia affatto in remissione. Ma anche come i suoi catalizzatori principali godano tuttora di ottima salute. Grazie anche alla possibilità di alimentare milioni di transazioni nella più assoluta indipendenza.
Le informazioni le ha fornite puntualmente la Banca dei regolamenti internazionali del Comitato di Basilea pubblicando l’ormai consueto bollettino trimestrale. E ribadendo, ancora una volta l’ottimo stato di salute del settore. “Il valore nozionale dello stock in essere di derivati negoziati fuori borsa (over-the-counter, OTC) è salito del 3% nella seconda metà del 2010, portandosi a 601 trilioni di dollari a fine dicembre – si legge nel rapporto. L’incremento è in larga parte conseguenza diretta dell’apprezzamento delle principali valute nei confronti del dollaro USA, divisa di segnalazione delle statistiche”. Uscendo dal gergo finanziario: l’ammontare totale dei titoli derivati circolanti nel mondo e misurato nel secondo semestre dell’anno scorso è pari a un controvalore teorico di 600 mila miliardi di dollari. L’aumento è leggermente sovrastimato, perché la quantità è misurata in dollari e la valuta Usa, nel periodo di osservazione, si è leggermente deprezzata rispetto alle altre. Ma la sostanza non cambia. Questa montagna di ricchezza virtuale – e tale resta visto che al mondo non esiste un ammontare equivalente di capitali in grado di liquidarla – continua a mantenersi costantemente abnorme. E di certo non è una bella notizia.
Quella dei 600 mila miliardi si è imposta da tempo come la soglia critica del settore. Nel dicembre del 1998, quando la Bis realizzò la prima rilevazione, il controvalore degli strumenti derivati scambiati fuori dalla borse si attestava a quota 81 mila miliardi, equivalenti al 125% circa del Pil mondiale misurato oggi. Basterebbe questo confronto per capire il significato della pantagruelica esplosione del settore nel corso dell’ultimo decennio. Alla fine del 2001 il loro valore complessivo aveva superato i 111 mila miliardi, 3 anni più tardi l’ammontare era quasi quadruplicato. L’anno successivo l’incremento sarebbe stato di 181 mila miliardi, un record. La crisi ha successivamente prodotto un’altalena, ma le variazioni non sono state più così significative. Oggi, spiega la Bis, il settore sfonda nuovamente la soglia dei 600 trilioni (o bilioni, a seconda delle scuole di pensiero sulla traduzione corretta del termine “trillion”) avvicinandosi alla quota record del 2009 (614). La differenza rispetto ad allora è pari a 13 mila miliardi. Una cifra apparentemente enorme, equivalente a poco meno del Pil dell’Unione europea. Ma anche una sostanziale bazzecola per un mercato equivalente a 10 prodotti interni lordi mondiali.
Fin qui la sbornia delle cifre. Salutare, vista la sua utilità per capire la portata del fenomeno. Ma in realtà, per comprendere il significato del rapporto Bis e delle preoccupazioni di Geithner, occorre concentrarsi su un’altra espressione ricorrente: over-the-counter, OTC, letteralmente “dietro al bancone”, o per rendere meglio l’idea “sottobanco”, dove l’espressione non implica operazioni illegali quanto in realtà transazioni invisibili ai più. La stragrande maggioranza degli scambi del settore avviene al di fuori delle piazze ufficiali, il che significa sfuggire al controllo degli organi di vigilanza. Una Consob o una Fsa mondiale dei derivati ancora non esiste anche se la scadenza ipotetica per una sua costituzione si avvicina sempre più. In risposta alla crisi finanziaria, il G20 aveva fissato per il 2012 il termine necessario per la realizzazione di un organismo di vigilanza globale sul mercato: una specie di clearing house globale, ovvero una stanza di compensazione, caratterizzata dalla presenza di intermediari in grado di fare da garanti sulla riuscita delle operazioni offrendo implicitamente trasparenza a un mercato ad oggi ancora largamente nell’ombra. Ma la differenti vedute tra le due sponde dell’Atlantico e la resistenza delle lobbies bancarie (il 96% delle transazioni è compiuto oggi da cinque banche Usa – JP Morgan, Citibank, Bank of America, Goldman Sachs ed Hsbc – che alla fine del 2010 hanno messo in cassa profitti per più di 19 miliardi) rende questa ipotesi molto labile.
Insomma, il mercato ha ancora ottime probabilità di restare nell’ombra dando spazio a libere transazioni dei suoi titoli strutturati. Derivati scambiati pericolosamente come i contratti futures sulle materie prime che fanno esplodere il prezzo del petrolio o scatenano emergenze umanitarie quando prendono di mira le commodities alimentari. Oppure le obbligazioni “collaterali”, le stesse che hanno permesso al mercato immobiliare di trascinare sul fondo una pletora di investitori che avevano scommesso sui subprime, o i famigerati Interest rate swaps, gli strumenti pensati per proteggere dai rischi di un’impennata dei tassi di interesse che hanno messo in crisi migliaia di municipalità in Italia, Usa e Germania e che divengono adesso sempre più “strategici” di fronte alla crescente attenzione per le politiche monetarie globali che si basano, ovviamente, proprio sulla gestione del costo del denaro. Infine, gli immancabili Cds, quei Credit default swaps che proteggono sì dal rischio bancarotta dei debitori ma lanciano anche pericolosi segnali di mercato spingendo verso l’alto la paura e i tassi di interesse sulle obbligazioni a danno, Grecia docet, delle stesse esposizioni debitorie. Pur rappresentando ancora una fetta ridotta del mercato, i Cds sulle obbligazioni sovrane sono cresciuti del 6% nell’ultimo semestre preso in esame dalla Bis. Confermando una tendenza alla crescita evidenziatasi in modo ancor più netto durante la prima metà del 2010, quando il loro controvalore aveva subito un incremento del 26%.

Questo è il vero problema dell'economia !!! Parte 1°

Torino, 27 giugno 2012
Al di là della crisi macroeconomica dei Pesi industrailizzati (eccesso di capacità produttiva e scarsa domanda di consumi finali e beni intermedi) e del debito sovrano di molti Stati molto  indebitati la SPINA NEL FIANCO ad un sano equilibrio delle dinamiche reali e finanziarie è rappresentato dall'anarchia di una mole immensa di DERIVATI !!!!
Ecco a testimonianza di ciò due articoli apparsi di recente su questo tema:
1) La mina derivati vale la metà del Pil europeo
di Antonella Olivieri.   Commento di      Il Sole 24 Ore del  20 giugno 2012
I derivati: una mina si aggira per l'Europa. E le regole non riescono a intercettarla, anzi sono proprio le regole – la prossima introduzione di Basilea 3 – ad aver guidato la ricomposizione dei portafogli delle banche nella direzione di una maggior assunzione di rischio, visto che il 97% dei derivati di cui sono imbottiti i big del credito continentale è di natura speculativa. Le cifre parlano chiaro: sono quelle dei bilanci analizzati da R&S-Mediobanca nello studio sulle «Maggiori banche internazionali».

I danni «collaterali» che feriscono l'Italia. Una spirale da fermare

Il campione di riferimento è quello delle venti maggiori banche europee, che tutte insieme sono una "potenza" con attivi di bilancio pari a oltre due anni di Prodotto interno lordo dell'area. Ebbene, queste banche, dallo scorso anno si sono messe a vendere a manbassa i titoli in portafoglio per alleggerirsi di asset che assorbono capitale di vigilanza, e in compenso si sono gettate sui derivati, che invece sono quasi ignorati ai fini dei ratio patrimoniali. Risultato: i 5.854 miliardi di derivati che hanno in pancia sono arrivati a contare più della metà del Pil europeo. Per essere più precisi, mentre l'incidenza sul Pil dei titoli in portafoglio è di colpo calata dal 48,1% del 2010 al 40,9% del 2011, quella dei derivati è balzata dal 41,3% al 53,2%. I due terzi sono scommesse sui tassi d'interesse, ma 450 miliardi sono puntati sul "merito di credito", 670 sui cambi.
Dov'è il problema? Il problema è il rischio latente. Per un "errore" JP Morgan ha perso 2 miliardi di dollari su questi prodotti. Ma non c'è neanche bisogno di sbagliare troppo. Un 10% di perdite sui derivati sarebbe in grado di mangiarsi più della metà (precisamente il 55,6%) del patrimonio di vigilanza delle grandi banche europee, cosa che non succederebbe nemmeno se tutti i crediti dubbi andassero in fumo (in quel caso il capitale regolamentare diminuirebbe del 49,3%). Salvo che, a differenza degli impieghi, i derivati non entrano nel conto. Le perdite però sì. Tanto più che la massa dei derivati è sette volte il patrimonio netto tangibile dei signori del credito.
Un problema che non riguarda solo l'Europa, anche se negli Stati uniti, che sono stati la culla della finanza innovativa, il fenomeno appare relativamente più contenuto, anche perchè il sistema è più frazionato. Nel novero dei big, a parità di criteri di selezione, rientrano solo sette banche made in Usa, i cui attivi sono pari all'87,4% del Gdp americano. Anche qui i derivati sono cresciuti, ma in misura inferiore, passando in un anno dal 26,7% del Pil a stelle e strisce al 32,8%: in valore assoluto, da 3.886 a 4.954 miliardi di dollari, di cui 380 sul merito di credito e 370 sui cambi. Va detto però che dalla quinta all'ottava posizione per dimensioni compaiono le "filiali" di quattro istituti europei che, come tali, rientrano nella classifica del Vecchio Continente.
Le medie non fanno giustizia delle differenze. Che ci sono anche in questo caso. Le due maggiori banche italiane sono infatti relativamente poco esposte sui derivati: Intesa-Sanpaolo per l'8,1% del totale attivo, UniCredit per il 12,7%. Poco esposta anche la britannica Lloyds (6,8%), ma è un'eccezione perchè le connazionali Rbs (35,1%) e Barclays (34,5%) sono invece al top, dietro solo a Deutsche Bank che coi derivati sfiora il 40% dell'attivo. Per non restare indietro, lo scorso anno anche Hsbc si è data da fare, aumentando del 64,4% i derivati attivi che ora pesano per un quinto del totale di bilancio, poco sotto le francesi Bnp (23,5%), Crédit Agricole (22,2%) e SocGen (21,5%). Quanto a propensione allo strumento non scherzano neppure le banche elvetiche, che hanno circa un terzo dell'attivo spiegato dai derivati (33,2% Crédit Suisse, 34,3% Ubs).
Insomma, comunque la si giri, ma una mina vagante dagli effetti potenzialmente devastanti. Tanto da rimpicciolire persino il rischio Grecia che pure, lo scorso anno, per le stesse venti banche è costato 21,2 miliardi di minusvalenze solo sui titoli di Stato. L'esposizione residua ammonta a 7,76 miliardi, concentrata in particolare su Crédit Agricole (2 miliardi), Bnp Paribas (1,43 miliardi), ma anche Commerzbank (800 milioni). In tutto il debito sovrano dell'Europa periferica – oltre alla Grecia, anche Irlanda, Italia, Portogallo e Spagna – conta per 303 miliardi nei portafogli delle grandi banche continentali. Le più "solidali" sono le francesi, con Bnp che ha 14,47 miliardi di BTp, 2,69 di bond portoghesi, 1,39 di titoli irlandesi, mentre Crédit Agricole ha 10,7 miliardi di titoli pubblici italiani, 3,3 di bonos spagnoli, 2,47 di obbligazioni portoghesi e 1,45 di irlandesi. Su Roma hanno scommesso anche Dexia (9,8 miliardi) e Commerz (7,9 miliardi), che ha anche 2,8 miliardi di bonos.






Germania "Uber alles"

Torino, 29 marzo 2012

Interessante l'articolo sulla "potenza" tedesca apparso l'altro giorno su La Reppublica e che vi riproponiamo:
L'analisi  -  La Germania garantisce le ipoteche europee

Da Berlino un nuovo modello di soft power. Le mosse di Angela Merkel e del ministro delle Finanza, Wolfgang Schaeuble, per assicurarsi la guida dell'Eurozona per i prossimi 30 anni. Cancellata la parità con la Francia: non è questione di egemonia ma di "ruolo e di rango" per trattare da pari con Usa, Cina, India, Russia e Brasile.
Dal nostro corrispondente Andrea Tarquini.
 BERLINO - Coprire per trent'anni pesanti ipoteche dei vicini di condominio per salvare il condominio intero, quindi anche voi stessi. Voi lo fareste? Chiediamocelo, quando pensiamo alla Germania neoimperiale. Perché il senso della decisione presa dalla Cancelliera federale Angela Merkel e dal suo potentissimo ministro delle Finanze, Wolfgang Schaeuble, di dire infine sì a un rafforzamento del fondo salvastati, come ci ha spiegato l'autorevole Sueddeutsche Zeitung, equivale proprio a questo. Il soft power del primato e della leadership tedesca in Europa fa dunque un salto di qualità. Dando a Berlino un peso politico strategico a lungo termine che fa saltare ogni parametro precedente. E dopo tanti tentennamenti della cancelliera che a molti apparivano un po' petit-bourgeois, tatticisti o di corte vedute, il salto di qualità è compiuto, come solo le vere grandi potenze sanno fare per consolidare la loro egemonia, con un gesto generoso. Non più divide et impera insomma, bensì dona et impera.
Trent'anni, quanti quelli della guerra che secoli addietro le grandi potenze combatterono in Germania, distruggendola. La pace dei trent'anni, cioè la decisione di Angela Merkel e Wolfgang Schaeuble, ricordiamolo, è di dire un sì indiretto al "firewall" per la difesa dell'euro. Cioè, accanto al nuovo meccanismo di stabilità europeo Esm che partirà tra qualche mese coesisterà per qualche tempo (magari anche molti anni) il vecchio e attualmente esistente fondo europeo salvastati, il Efsf. Questo significa un aumento delle riserve per interventi d'emergenza da 500 a 700 miliardi. E significa anche che la partecipazione tedesca - tra finanziamenti e garanzie - alla muraglia di fuoco salirà dai 211 miliardi di euro attuali ad almeno 280 miliardi. Quasi la metà del totale.
Non è tutto. Visto che Grecia, Portogallo e Irlanda hanno ottenuto trent'anni di tempo per rimborsare i crediti dell'Efsf (e quindi, si presume, del futuro, imminente Esm), la Repubblica federale e i suoi contribuenti si accolleranno l'onere e il rischio di sostenere sulle loro spalle, per trent'anni, il peso di quasi la metà della "muraglia di fuoco".
Dalle esitazioni e tentennamenti calcolati, Merkel passa ai rischi calcolati. Cioè la strategia di egemonia europeista cara al suo ministro delle Finanze Schaeuble, il quale appare intanto come il più probabile futuro presidente dell'Eurogruppo quando a giugno la Ue dovrà scegliere il successore dell'attuale titolare, il premier lussemburghese Jean-Claude Juncker. Non è poco. Certo, le pressioni del resto d'Europa, degli Usa, ma anche delle nuove potenze, preoccupate dalla crisi dell'Eurozona (Brasile, Cina, eccetera) hanno svolto un loro ruolo. Però nella storia di ogni grande potenza la differenza tra chi ha e chi non ha il coraggio di scegliere un rischio calcolato decide della durata della sua leadership imperiale.
Nessun aiuto è gratuito, ovviamente, nella Realpolitik mondiale. Però questa volta "Angie" sceglie una Realpolitik con visioni di largo respiro: leadership europea per guidare domani tutti, aiutando i paesi deboli. Ovvio, che in cambio bisognerà anche concedere qualcosa a Berlino. Ovvio anche che il grande passo di Merkel e Schaeuble scopre le carte nell'Eurozona. Ogni pretesa francese di parità strategica con la Germania viene meno, ma non lo si dice per non urtare la sensibilità dell'alleato d'oltre Reno, durante la campagna elettorale e in generale. Parigi comunque continua a sognare (guerra contro Gheddafi, grandi proclami di Sarkozy e dello sfidante Hollande sull'ordine economico europeo e mondiale, eccetera) un ruolo di pari dignità con Berlino nel mondo e nella costruzione dell'Europa politica, che non è più nei fatti. Non è questione di intenzioni egemoniche tedesche. I leader tedeschi prendono atto della realtà di base: solo il loro paese, per il suo peso economico ma anche politico, ha "le rang et le role" per essere leader di un'Europa che parli a pari dignità con Usa, Cina, Russia, India, Brasile, e con ogni altro grande partner. Il gigante economico vuole diventare anche gigante politico, non è colpa sua se altri europei rimpiccioliscono di rango e di ruolo.
Ultima considerazione: la scelta di aumentare le spese tedesche per la muraglia di fuoco, e di coprire ipoteche di debiti altrui per trent'anni, non è facile per Merkel e Schaeuble. Non è d'accordo il partito-fratello bavarese Csu. E lo junior partner della coalizione, la Fdp (partito liberale) è talmente in caduta verticale - alle ultime elezioni nella Saarland è crollato allo 1,2 per cento - che "Angie", Schaeuble e i suoi consiglieri temono una sua deriva nazionalista ed euroscettica come ultimo disperato tentativo di non scomparire.
Corollario per il futuro prossimo: alle elezioni politiche federali previste per il settembre 2013 Angela Merkel ha tutte le carte per vincere, ma probabilmente dovrà scegliersi un nuovo junior partner. Forse Spd o Verdi, che sono pronti a soccorrerla al Bundestag contro ogni franco tiratore della maggioranza di centrodestra e per darle l'auspicata maggioranza qualificata dei due terzi ai voti-chiave in Parlamento sulle misure per salvare l'Europa.
Vedremo, intanto meditiamo sui meriti del soft power imperiale di Angela Merkel. Il cui partito, la Cdu, intanto ha appena confermato la svolta a sinistra voluta dalla cancelliera: la ministro del Lavoro Ursula von der Leyen ha dichiarato che "la giustizia sociale per noi è valore costitutivo prioritario". Meditiamo, prima di sparare sempre (e soprattutto, inutilmente) contro i "crucchi cattivi".

Come affrontare la Spesa Pubblica

Torino, 27 febbraio 2012

Sempre a proposito di Debito Pubblico italiano merita una rilettura di quanto publicato oggi su La Stampa online da Franco Bruni.
Ecco il testo:
Spesa pubblica una riforma è possibile

Il ministro Passera ha ribadito ieri che il governo non annuncia «tesoretti» prima di averli incassati. Monti aveva già rinviato la predisposizione di un fondo per gli sgravi fiscali a quando la sua alimentazione assumerà consistenza. Ciò non smentisce l’intenzione di utilizzare i proventi della lotta all’evasione e agli sprechi per aiutare la crescita, anche abbassando le tasse. Dati i vincoli di bilancio, è meglio per ora non pensare a ridurre il gettito complessivo delle imposte, mentre è sacrosanto cambiarne la composizione e la distribuzione: far pagare di più chi evade o elude, sgravare chi paga troppo, tassare di più il capitale e alleviare gli oneri fiscali e parafiscali che gravano sull’occupazione, sia dal lato delle imprese che da quello dei lavoratori. Sarebbe meglio farlo nel quadro di un’armonizzazione fiscale europea. Quanto alla spesa pubblica, è vero che la sua riduzione consente di accelerare gli sgravi fiscali; ma è anche vero che i risparmi sulle spese meno utili, i soldi buttati via, sono chiamati ad alimentare le spese più preziose e scarse, come quelle che oggi servirebbero per facilitare la riforma degli ammortizzatori sociali e quindi dei contratti di lavoro. Il governo Monti ha un mandato a termine e compiti urgenti e precisi. Può mettere in sicurezza il saldo fra entrate e uscite e razionalizzarle un poco entrambe. Ma il suo lavoro di emergenza può servire alle forze politiche anche per prepararsi ad affrontare una scelta strategica più di lungo termine: con un bilancio in equilibrio, quanto è bene siano grandi le entrate e le spese? Affiora a tratti l’idea che la vera crescita si possa attuare solo con un forte ridimensionamento dello Stato, sia della spesa totale che delle imposte. Come è noto ci sono al mondo esempi differenti e non mancano i Paesi che crescono bene con settori pubblici tutt’altro che piccoli. È comunque opportuno che la questione rimanga sullo sfondo, che la si discuta con crescente consapevolezza e trasparenza. L’opinione di chi scrive è che è sempre più difficile che un’economia cresca in modo sostenibile e sano, rispettando i valori attorno ai quali si è andata costruendo l’integrazione europea, con uno Stato economicamente «minimo». I bisogni pubblici dei tempi moderni sono immensi e crescenti. Il loro soddisfacimento è indispensabile perché le produzioni private siano competitive e la loro profittabilità non sia instabile e illusoria o, addirittura, frutto di rapine dei prepotenti. Si possono privatizzare alcune produzioni pubbliche ma occorre spendere per regolare e controllare ciò che si è privatizzato. Si devono assolutamente ridurre i tanti sprechi nella pubblica amministrazione, ma sono pronti tanti capitoli di spesa dove ridirigere le risorse risparmiate. Carceri, scuola, sanità, ricerca e patrimonio culturale (che, lungi dall’esser superfluo, aiuta a sfamarci e a crescere), difesa del territorio, che ci crolla addosso e persino ci uccide perché sempre più dilaniato dalla privatizzazione, sia formalmente legale che criminale, degli spazi pubblici. Servono molti soldi e un grande sforzo politico e amministrativo. Più che tagliare la spesa totale occorre fissare le priorità in una lunga lista di bisogni pubblici pressanti, con grande cura e dettaglio e un buon dibattito politico. E occorre mettere a punto i metodi organizzativi perché la spesa a essi dedicata sia fatta bene, rendicontata con rigore, senza sprechi e privilegiando ciò che abbiamo deciso essere più importante. È un compito che va oltre la «spending review» di emergenza che in pochi mesi può fare il governo attuale. È una strategia politica a lungo termine che può rivoluzionare interi settori della pubblica amministrazione. Non è un compito facile: ma scegliere le priorità e assicurare l’efficienza delle spese non è facile nemmeno nel settore privato: gli esperti di governo societario sanno bene quanto nelle imprese sia complicato controllare i costi, impedire gli sprechi e le appropriazioni indebite. Occorre la disponibilità al cambiamento, soprattutto di chi oggi è impiegato nella pubblica amministrazione. Il taglio della spesa pubblica complessiva non è una soluzione. Il taglio cieco e trasversale è insostenibile e dannoso e ora tutti sanno che ci vogliono «riforme strutturali». Le riforme debbono ridurre le spese inutili e cattive, ma non devono lesinare quelle buone. E non per un presunto «effetto espansivo sulla domanda aggregata». Ma perché contribuiscono alla crescita dal lato dell’offerta, cioè aumentando la capacità produttiva dell’economia e la sua qualità.  Non dobbiamo rassegnarci all’idea che il settore pubblico sia comunque inefficiente e vada quindi ridotto alle minime dimensioni. Se non possiamo sperare che produca abbondanti servizi collettivi con giusti incentivi e in modi efficienti e corretti, come possiamo sperare che vigili bene il traffico dei privati e impedisca loro di farsi del male a vicenda? Si tratta di dedicarsi al compito con qualche entusiasmo, mobilitando l’opinione della gente con un messaggio di impegno collettivo che superi la sensazione di impotenza che provano i singoli individui di fronte a compiti che richiedono azione collettiva. Un messaggio che metta da parte ideologie superate e contrapposte, gli infruttuosi, astratti dibattiti fra chi si autoproclama liberale e chi demonizza i mercati privati. Un messaggio che lascerà forse spazio per qualche utile dialettica fra «destra» e «sinistra», sui metodi da usare; ma che vuole convergenza sull’obiettivo di fondo: la cura speciale dei beni e dei servizi pubblici e dei modi per produrli in quantità adeguata e senza sprechi.






Finanza internazionale: regole uguali per tutti o no ????

Torino, 7 gennaio 2012
Davvero interessante il dibattito di come agiscono le Banche Centrali e quella "di fatto" NON come la Bce che ritroviamo su il Sole 24 Ore di ieri 6 gennaio. Il busilliss è sempre lo stesso. Cavatela da solo o ti stampo quanto moneta vuoi e ti salvo  !!!.  L'ultimo esempio è il caso di Usa e Uk. Il primo dell'Europa. Ma perchè queste disparità in un mondo globalizzato soprattutto per quanto riguarda la finanza ?????
Riprendo e ripropongo al riguardo alcuni temi già trattati su questo Blog ma che sono ALLA BASE DI RAGIONAMENTI CHE PORTANO TUTTI IN UNA SOLA DIREZIONE: CERTE REGOLE O VALGONO PER TUTTI O PER NESSUNO !!!! OPPURE RISCRIVIAMO NUOVE REGOLE  C I O E'   U N A    N U O V A    B R E T T O N        W O O D S  !!!!!!!!
ECCO I PUNTI SU CUI RIFLETTERE SEGUITI POI DALL'ARTICOLO DI IERI DE IL SOLE 24 ORE di cui si diceva.
-  i derivati sulle scene finanziarie mondiali sono il 12,5 volte di tutto il Pil mondiale aggregato;
- Da questo Blog del 1 febbraio 2010 e dal libro di Luciano Gallino dell'Università di Torino e sociologo industriale di fama dal titolo "Con i soldi degli altri" :
- 1) Una massa di risparmio equivalente al Pil del mondo viene gestita da enti finanziari quali fondi pensioni, fondi di investimento, assicurazioni, hedge funds e altre strumenti derivati (spesso nati solo come protezione al rischio d'impresa, tipo valute, materie prime, etc e poi degenerati in super strumenti speculativi)a loro completa discrezione.
2) Gli investitori istituzionali hanno oggi in portafoglio oltre la metà del capitale delle imprese quotate.
3) Nel tutelare gli interessi dei risparmiatori sono in genere indifferenti alle conseguenze sociali degli investimenti che effettuano. Non a caso ho recepito ieri in modo quasi "sconsolato" e "nervoso" la presa di posizione del presidente Usa Obama di far rientrare i capitali prestati alle maggiori banche Usa che erano andate in crisi scagliandosi ancora una volta contro i bonus miliardari degli amministratori. Leggi altrimenti come l'ultima riunione del G20 su questo tema non abbia ancora prodotto risultati a livello mondiale.
Uno studio del senato francese l'ha chiamata "ascesa al potere" degli investitori istituzionali. Come dargli torto guardando alla dinamica dei numeri. Nel 1992 essi gestivano in totale, nei Paesi Ocse, poco più di 15 trilioni di dollari. Nel 2002, alla fine di un decennio che fu il più prospero delle borse mondiali, quando la crescita del loro portafoglio rallentò un poco a seguito della crisi finanziaria esplosa in Usa a fine 2001 con il crollo della Enron, esso superava già largamente i 40 trilioni. Con la forte ripresa del mercato borsistico verificatasi tra il 2003-2004 e il 2007 e l'aumento del numero di sottoscrittori i capitali da loro gestiti sono ulteriormente cresciuti, in appena un lustro, ad un ritmo impressionante: oltre il 32% in totale, pari a 13 trilioni di dollari
Ed ecco l'articolo de Il sole 24 ore di ieri:
A inizio 2010 la Grecia poteva essere salvata con (solo) 167 miliardi
Banche contro Stati, salvataggi a due velocità
Cento miliardi di euro. Forse qualcosa in più. Erano i soldi che servivano, a inizio 2010, per stoppare sul nascere la spirale perversa della crisi greca. Un intervento, certo imponente, ma decisivo per evitare l'avvitamento su sè stessa della crisi ellenica e il suo dirompente effetto-contagio sull'intera stabilità dell'area dell'euro. Da dove spuntano quei 100 miliardi e per fare cosa? Quell'iniezione di denaro in un colpo solo avrebbe riportato il livello del debito greco alla soglia assai meno inquietante del 100% sul Pil. Con altri 23 miliardi si poteva colmare il deficit di bilancio del 2010 di Atene. E con un ulteriore soccorso di 44 miliardi si sarebbe portato il livello del debito sul prodotto interno al livello attuale della Germania, intorno all'80 per cento. Con 167 miliardi si mandavano in soffitta per qualche anno i guai greci. Oggi, due anni dopo, la Grecia viaggia con un debito al 164% del Pil, una recessione profonda e un passivo di bilancio al 9%. Si è perso tempo e l'influenza è diventata polmonite. Non solo per la Grecia, ma per tutti i paesi deboli dell'euro.
Ma si poteva intervenire in modo draconiano o è pura fantasia? Difficile dirlo con il senno di poi. Del resto chi obbligava l'Europa con la sua moneta unica, ma senza un Governo unico a soccorrere un paese inaffidabile e che il debito se l'era tutto costruito da solo? Quel debito non potevano certo sanarlo nè i tedeschi nè tanto meno finlandesi o francesi. Sarebbe stata una bestemmia. E così si è andati avanti prendendo tempo, traccheggiando, centellinando gli aiuti in piccole tranche.
Morale: la crisi è degenerata e ha prestato il fianco al più grande attacco finanziario all'Europa da parte di capitali in cerca di occasioni di guadagno. Prima il ventre molle ellenico, poi la Spagna e l'Italia. Con gli spread impazziti come non mai nel 2011 e le borse di tutta Europa che hanno vissuto l'anno scorso il loro annus horribilis. Con la crisi greca fuori controllo, ecco l'attacco all'Italia e perchè no anche alla Francia. Con i capitali Usa, fondi monetari in testa con i loro 700 miliardi di dollari, a fuggire dall'Europa continentale. Giù i prezzi dei bond pubblici, giù le borse.
Si poteva intervenire già nel 2010 anche sull'Italia, garantendo con 300 miliardi l'obiettivo di portare il debito/Pil al 100% e con 560 miliardi a livello tedesco. Non si è fatto per la Grecia figuriamoci per l'Itali
Il costo dell'inazione
Il non aver agito per tempo, l'inazione o meglio l'inanità dei governi europei e l'assenza di un prestatore di ultima istanza come la Fed americana ha avuto così un costo salatissimo. Per i greci, ma in realtà per l'intera Europa, Germania inclusa. Nel solo 2011 la ricchezza finanziaria bruciata sull'altare di una crisi lasciata incancrenire è pesante. Le borse dell'area euro hanno perso la bellezza di 520 miliardi di euro. Di questi ben 200 miliardi hanno riguardato le borse di Francia e Germania. Ma non solo le borse hanno punito l'Europa zoppa della moneta unica senza Governo federale. Il parco bond della Repubblica italiana ha perso in media in conto capitale circa 160 miliardi di euro nell'apice della crisi degli ultimi mesi del 2011. I bond greci sul mercato segnano perdite per 135 miliardi e 36 miliardi i bond portoghesi. Il conto sarà anche approssimativo ma siamo tra Borse e obbligazioni nell'ordine degli 850 miliardi di ricchezza finanziaria andata in fumo. Pagata dai risparmiatori europei. Poi va aggiunto il costo di mutui, prestiti alle imprese rincarati sull'onda degli spread impazziti. Si arriva facilmente ai mille miliardi.
L'interventismo anglosassone
Eppure la crisi dell'euro non nasce in Europa. Il prologo è tutto americano. La crisi tutta privata è partita da Wall Street. La turbo-finanza, fatta di mutui subprime e titoli tossici, dal crack Lehman in poi ha visto implodere il sistema bancario anglosassone. Cosa è avvenuto lì? I Governi Usa e britannico, la Fed e la Banca d'Inghilterra hanno messo in campo le contromisure: l'aiuto diretto e indiretto per salvare l'intero sistema bancario dei due paesi è stato, secondo i dati Mediobanca, di 2.800 miliardi di dollari (2.200 miliardi di euro) per Wall Street e di oltre 1.200 miliardi di euro per Londra e Dublino. Uno sforzo immenso. Ma che ha permesso a distanza di tre anni di schivare la crisi strisciante che invece ha avviluppato l'Europa della moneta unica. Lo si è fatto perchè lì non dovevano accordarsi 17 capi di Stato e le due banche centrali hanno inondato il sistema di liquidità. Ha avuto un prezzo: il debito a salire in condizioni oggi peggiori dell'eurozona e con un deficit di bilancio allargato al 9-10 per cento del Pil contro il 4 per cento dell'area euro. Tutto ovviamente ha un costo che da privato è diventato pubblico. Ma è solo la gabbia stretta dell'Europa, zoppa di guida politica, che finisce per trasformare l'influenza in polmonite.

Anche per l'Ungheria titoli spazzatura": lo dice Fitch !!

Torino, 7 gennaio 2012
Quando i mali non vengono mai da soli anche se la situazione era già nota ma "le solite" agenzie di rating ci danno una mano: Fitch taglia il rating dell’Ungheria a spazzatura  !!!
DA  LA  STAMPA  ONLINE  DI  IERI  6  GENNAIO  2012
Torna il nervosismo sulle Borse in Europa con i bancari nel mirino, gli spread in tensione e i mercati che ignorano i dati macro americani e temono il contagio della crisi del debito. Pesa il giudizio di Fitch che taglia il rating dell’Ungheria a spazzatura, mentre gli incontri tra i leader politici non sembrano cambiare le cose ma solo mostrare che la strada per uscire dalla crisi è ancora in salita. I titoli di Stato dell’Ungheria sono «spazzatura» anche per Fitch. L’agenzia Usa ha infatti tagliato il rating sul debito del Paese magiaro di un gradino, a BB+ da BBB-, confermando l’outlook negativo, e allineandosi così al giudizio espresso da Moody’s e Standard & Poor’s, che avevano già ridotto a "junk" il rating di Budapest nei mesi scorsi. «Il declassamento dell’Ungheria riflette l’ulteriore peggioramento dei conti pubblici, delle prospettive di crescita e le crescenti difficoltà a finanziarsi sui mercati», spiega Fitch, sottolineando che tutto questo «è stato causato in parte da politiche economiche non ortodosse, che minano la fiducia degli investitori e complicano la messa a punto di un accordo con l’Ue e l’Fmi per un nuovo pacchetto di aiuti». L’agenzia si riferisce in particolare alla svolta autoritaria che ha preso l’Ungheria con la riforma costituzionale voluta dal premier Viktor Orban, entrata in vigore il primo gennaio, e che modifica anche lo statuto della banca centrale ungherese svincolandola dal controllo della Banca Centrale Europea e portandola sotto quello del governo magiaro, violando i trattati dell’Unione Europea. Riforma, questa, che ha indotto la Ue e il Fondo Monetario Internazionale a sospendere il mese scorso i negoziati con Budapest sulla definizione di un pacchetto di salvataggio da concedere all’Ungheria.

Forza Europa !!! C'è la farai !!!

Torino, 4 gennaio 2012

Se c'è una ragione valida per "combattere per l'Euro e cioè per l'Europa" è far salva la storia dell'Antico Continente che percorre queste terre da sempre ed è diventata realtà dal dopoguerra ad oggi partendo dai principi di Spinelli e Schuman tanto per citarne alcuni dei Padri ispiratori di quello che in un domani saranno gli "Stati Uniti d'Europa" !!!!!!! 
Più di 60 anni di pensieri, idee ed ideali, azioni che superano le ideologie e i preconcetti per riflette una compiuta democrazia tendente all'unificazione di un territorio che in termini di cittadini, estensione territoriale (fusi orari ... come gli Usa), Pil complessivo, non è molto differente dagli Stati Uniti d'America.
Ecco perchè Barroso, presidente della Commissione UE, ha fatto trapelare, in questi momenti di difficoltà un documento "politico" di "UNITI VINCEREMO" !!!!!   Ne sono convinto !!!
Ecco il commento ripreso da La Stampa online di oggi a firma di Marco Zatterin.

 Il documento riservato di Barroso ai 26 Stati Ue: difendiamo lo spirito comunitario

Il «fiscal compact» come lo yogurt. La Commissione Ue vuole attribuirgli una scadenza, sostiene che «entro cinque anni» dall’entrata in vigore del Patto di Bilancio, varato a ventisei (senza Londra) il 9 dicembre, sia necessario «lanciare un’iniziativa che incorpori la sostanza dell’accordo nella cornice dell’Unione europea». Lo chiede per amore dello spirito comunitario, per evitare sovrapposizioni col diritto Ue, e per mettere una carica a tempo sotto il treno delle velleità intergovernative guidato da tedeschi e francesi. «Facciamolo pure strano», sussurra Bruxelles. Ma poi è meglio tornare sulla via maestra dei padri fondatori. Nelle sette pagine della memoria che i servizi del presidente Josè Manuel Barroso hanno messo sul tavolo della grande trattativa sulla nuova intesa SalvaEuro c’è tutta la paura di vedere incrinato ciò che, a fatica, l’Unione è riuscita a costruire sinora. E’ un documento di oculata difesa, quello della Commissione, scelta inevitabile così come quella dell’Europarlamento che - anche lui favorevole ad una scadenza quinquennale ha optato per un attacco ambizioso, invocando più coinvolgimento e controllo da parte delle attuali istituzioni comunitarie, oltre che la solidarietà d’un fondo comune per aiutare i paesi indebitati e la definizione di un percorso che arrivi agli eurobond odiati dai tedeschi. La trattativa decolla venerdì, giorno in cui gli sherpa dei governi vedono nuovamente con le istituzioni europee e i tre rappresentanti di Strasburgo, il tedesco Elmar Brok (Ppe), l’italiano Roberto Gualtieri (Pd) e all’ex premier belga Guy Verhofstadt (LibDem). Il tempo stringe, la crisi attanaglia l’Eurozona recessiva. Gli Stati hanno inviato le loro memorie, quella italiana risulta invocare più coordinamento senza ulteriori vincoli di bilancio. Cosa che, in linea col premier Monti, auspica anche la Commissione Ue, convinta che il «fiscal compact» non debba modo estendere lo spettro della legislazione esistente: «Un accordo intergovernativo fra gli Stati non deve contenere alcuna nuova procedura di coordinamento e vigilanza, né istituire nuovo organismo di monitoraggio che potrebbe interferire con quelli che agiscono secondo gli attuali trattati». Non andare oltre i Trattati, e quindi oltre i poteri delle istituzioni, è dunque la prima avvertenza di Barroso. E non spingersi oltre il mandato che i leader hanno attribuito al Fiscal compact, «perché ogni tentativo di allargarne il raggio d’azione porterebbe inevitabilmente ad un ritardo nel processo negoziale e, peggio, solleverebbe dubbi sulla solidità giuridica dell’accordo nei confronti del diritto comunitario». I sette cambiamenti proposti vanno in questo senso. Circoscrivere i lavori e, come sottointeso, anche la portata di un patto di cui pochi, oltre i tedeschi, comprendono il senso, visto che ripropone in una forma intergovernativa questioni che l’Ue ha già affrontato con atti di diritto secondario. Lo si capisce dall’emendamento numero uno, laddove recita che «il coordinamento delle politiche deve andare mano nella mano con la convergenza», termine quest’ultimo assente dalla bozza del 9 dicembre. Bruxelles si preoccupa per i rischi di sovrapposizione e invita a «tener conto» delle sue intenzioni di presentare proposte legislative. E’ una questione di coerenza, il che porta all’invito a «non costruire forme di coordinamento economico parallele alle esistenti», comandamento che vale per le istituzioni, di cui non se ne vogliono di nuove. Riduciamo le anomalie del «Compact», sembra dire la Commissione che, in questo, si ritrova con l’Europarlamento che vuole dialogo e solidarietà). La soluzione equilibrata del duello nel nome della stabilità dell’euro passa di qui, dalla voglia di unirsi e favorire un ritorno alla normalità non solo giuridica. Frau Merkel permettendo.

C'è ancora da fidarsi dell'esperienza di Soros ?

Torino, 3 gennaio 2012

Negli ultimi 10 giorni due notizie su Soros una pro (forse) e l'altra contro. Cominciando da quest'ultima si evince dai giornali del 29 dicembre scorso che secondo il Wall Street Journal Soros ha venduto quasi tutti i lingotti d'oro in suo possesso nel primo trimestre scommettendo invece su società minerarie. Da allora l'oro è salito dell'11 % mentre Barrick Gold, una delle società minerarie di cui è investitore, è scesa del 14 %.
Speriamo vada meglio sul fatto che compra a man bassa Btp. Secondo il Wall Street Journal, il suo team d'investimento del Soros Fund Management avrebbe comprato 2 miliardi di dollari in bond europei (soprattutto italiani) sulla piazza londinese da Kpmg Llp, l'amministratore che gestisce la bancarotta di Mf Global la società di brokeraggio finita di recente in bancarotta. L'acquisto a un prezzo inferiore ai valori di mercato è stato effettuato con una transazione che ha coinvolto anche JP Morgan. Secondo il quotidiano Usa, anche altre case di investimento hanno effettuato grandi acquisti dei titoli detenuti dal broker americano (in portafoglio aveva 6,5 miliardi di dollari in bond europei).