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I titoli dei Post hanno un link di riferimento al tema trattato
Torino, 18 dicembre 2012

L' UK pronta per uscire da dalla UE ?
Non ancora ma......

www.parliament.uk
Europa sempre un pò scricchiolante. Saranno da prendere per buone le parole del leader inglese Cameron che ipotizza, se non più conveniente, l'uscita dell'UK dalla UE ? O è solo una minaccia/ricatto per evitare misure tipo Fiscal Compact o limitazione alla sua "sovranità" sulla finanza ?
Dal sito Dagospia che a sua volta riporta altra fonte ecco il testo:


Non voglio che la Gran Bretagna esca dall'Unione Europea, ma una sua uscita è "immaginabile": a dirlo è stato il primo ministro britannico David Cameron, parlando ai deputati, secondo quanto riporta il Telegraph. Durante un intervento alla Camera dei Comuni, alla domanda se è immaginabile una uscita della Gran Bretagna dall'Ue, il primo ministro conservatore ha risposto: "Ogni scenario per la Gran Bretagna è immaginabile, siamo artefici del nostro destino, possiamo fare le nostre scelte". Tuttavia, ha aggiunto, una eventuale uscita "non è la mia preferenza". "Credo che la scelta che dobbiamo fare sia di rimanere nell'Unione Europea - ha proseguito Cameron -, per essere membri del mercato unico, per massimizzare il nostro impatto in Europa, ma se fossimo insoddisfatti di questa relazione non dovremmo avere paura di alzarci e dire questo". Quelle di ieri sono le prime dichiarazioni di Cameron in cui si ipotizza una possibile uscita della Gran Bretagna dall'organizzazione di cui è membro sin dal 1973.

Il debito pubblico di mezzo mondo affosserà l'economia ?

Torino, 17 dicembre 2012

Se ci dobbiamo basare sulla possibilità di riportare il senso del "valore monetario" di scambio in termini più coerenti e realistici certamente dobbiamo appellarci ad una nuova Bretton Woods altrimenti non ne usciremo mai !! Basta leggere l'interessante articolo di Chiara Bussi su Il Sole 24 Ore di oggi per renderci conto che i soli debiti pubblici di mezzo mondo sono "Spazzatura".
Dunque qual'è la regola che tiene tutto in piedi ? Le convenzioni e le convenienze per evitare il crollo del sistema mondiale.
Ecco il perchè nell'articolo menzionato:



Mezzo mondo con rating "spazzatura". Mentre la crisi non concede tregua le pagelle aggiornate delle "sorelle" Moody's, Standard and Poor's e Fitch mostrano una raffica di insufficienze, più o meno gravi. Ben 68 Paesi hanno incassato un livello "junk" da parte di almeno un'agenzia di rating, 48 da almeno due e in 24 fanno l'en plein mettendo d'accordo tutte e tre. Agli esami di dicembre in 21 hanno superato le colonne d'Ercole perdendo la denominazione di investment grade. Per 33 va ancora peggio, tanto che sono in terapia intensiva a livello "non investment grade inferiore" e sotto monitoraggio costante. Per quattro Paesi – Grecia, Argentina, Belize e Pakistan – la malattia è grave e in fase quasi terminale. Restringendo il focus su ciascuna agenzia su 118 rating sovrani sotto la lente di Moody's 46 sono classificati come "junk". Sui 127 valutati da S&P in 57 hanno un giudizio insufficiente, per Fitch in 39 su 101 presenti sul registro di Fitch. Lontani anni luce dalla Germania, tra i pochi a resistere nell'Olimpo della tripla A. Mentre l'Italia vanta ancora A- da parte di Fitch, ma per S&P è BBB+ e per Moody's è Baa2, penultimo livello prima del "junk".
Alla conta finale dei rating "spazzatura" è un testa a testa tra Africa e America Centrale e Latina, ma a soffrire di più è ancora una volta la "vecchia Europa", vittima della crisi dell'euro che sta contagiando i Paesi vicini dell'Est. «Un dato preoccupante – spiega Marco Lossani, ordinario di economia dei Paesi emergenti all'università Cattolica – perché gli Stati europei sono quelli che hanno visto il merito di credito maggiormente deteriorato negli ultimi anni». La pecora nera a livello mondiale è la Grecia, alla prese con il piano di salvataggio internazionale. Per Moody's e S&P Atene è appena un gradino sopra la bancarotta conclamata e nonostante il nuovo accordo raggiunto in sede europea il suo debito viene ritenuto insostenibile. Del club, ma con un giudizio meno negativo, fa parte anche la vicina Cipro, che a ottobre ha chiesto aiuto ai partner Ue per evitare la bancarotta, incassando una bocciatura da parte delle tre agenzie. Il Portogallo, in cura dal 2011, ha inanellato una serie di riduzioni del rating negli ultimi due anni ed è entrato nella lista nera, anche se per il momento l'insufficienza non è grave. La più pessimista è Moody's che valuta Lisbona Ba3 con outlook negativo. «Il rating – ha sottolineato l'agenzia nell'ultimo rapporto sul paese – potrebbe essere ulteriormente ridotto se non proseguirà del debito nei prossimi tre anni o se il governo non riuscirà a mettere a segno le riforme strutturali annunciate». In risalita è invece l'Irlanda, che sta cominciando a intravedere la luce in fondo al tunnel: è già tornata a livello investment grade per S&P e Fitch e per Moody's è nel gradino più alto del territorio "junk" (Ba1). Nella lista dei sorvegliati compare anche l'Ungheria che mette d'accordo tutte e tre. Fitch, ad esempio, punta il dito sulle «politiche non ortodosse che minano la fiducia degli investitori» e sull'alto livello di debito estero. Del gruppo, secondo S&P, fa parte anche la Romania, che ha un sistema bancario per oltre l'80% in mano estera. A un passo dal fossato è la Spagna: per Moody's e S&P è all'ultimo gradino prima della retrocessione in zona "spazzatura". Devono poi accontentarsi di un giudizio sotto la sufficienza quasi tutti i Paesi dell'America centrale e latina ad eccezione degli emergenti sulla cresta dell'onda Brasile, Cile e Colombia. Qui Argentina e Belize raggiungono i gradini più bassi della scala di rating. «Il giudizio su questi Paesi – spiega Lossani – sconta anche la loro performance del passato caratterizzata da una propensione al default, tanto che vengono definiti serial defaulter. Basti pensare che negli ultimi 150 anni l'Argentina ha ristrutturato il proprio debito 4 volte e il Venezuela per ben 9 volte». Per Fitch, che a fine novembre ha tagliato il rating di Buenos Aires di ben cinque punti, il Paese è al livello "CC" con «un'alta probabilità che non riesca a ripagare il suo debito». Lo spettro del 2001 rischia di materializzarsi ancora. In Africa sono tra i peggiori della classe i Paesi in via di sviluppo, ma anche quelli travolti dalla primavera araba, come Egitto e Tunisia. «Il continente – dice Lossani – non cresce e resta isolato dal mondo. Ma sui giudizi, oltre alle motivazioni economiche, pesano le incertezze politiche e il lungo cammino ancora da compiere». L'anello debole è l'Africa subsahariana. In Asia a parte Giappone e Cina e le Tigri (Corea del Sud, Taiwan, Singapore e Hong Kong) hanno l'insufficienza in pagella tutti gli altri Paesi. Tra questi spiccano anche due membri del club dei Civets, gli emergenti del futuro: Indonesia e Vietnam. «La prima – conclude Lossani – paga un forte squilibrio nei conti con l'estero, la seconda è una Cina in piccolo, con il Partito al comando, ma anche un sistema bancario fragile».



L'Asia la tigre del mondo tra 15 anni !!

Torino 17 dicembre 2012

Interessante l'articolo apparso cinque giorni fa su "La Stampa" a proposito di "Scenari Futuri". E' vero che ci dobbiamo occupare del contingente vista l'aria che tira nma interpretare le dinamichew di medio - lungo termine serve a noi come Italia ma soprattutto come Europa a capire che policy intraprendere a livello di decisione del pubblico/istituzionale e delle politiche business oriented.
Ecco l'ottimo resoconto di Paolo Mastrolilli:



“Nel 2030 l’Asia dominerà il pianeta”

L’intelligence Usa tratteggia il ritratto del mondo fra meno  di due decenni: la Cina avrà superato gli Usa mentre l’Europa continuerà il suo lento declino
 

 Il dominio occidentale sul mondo è solo un ricordo. Il futuro, visto da un rapporto dell’intelligence americana, sistema l’Asia al centro del nostro universo. L’Italia, a sorpresa, riesce ancora a contare più di quanto pesi, ma è un vantaggio di posizione che siamo destinati a perdere. L’ economia cinese che sorpassa quella americana, e l’Asia che scavalca Europa e Nordamerica sommate assieme. L’ordine globale che dipende dall’alleanza tra Pechino e Washington, ma vacilla e mette a rischio la tenuta della globalizzazione, aprendola porta alle megalopoli che diventano attrici protagoniste sulla scena geopolitica internazionale. E poi la classe media in enorme espansione, che grazie alle nuove tecnologie accrescerà anche il potere diretto degli individui. La medicina in costante progresso, tanto che gli esseri umani saranno in grado di programmare e potenziare i loro corpi, cambiando pezzi come se fossimo dal meccanico. Il National Intelligence Council, organo accademico legato alla comunità dei servizi americani, ci tiene a sottolineare che il suo rapporto «Global Trends 2030: Alternative Worlds» non ha l’ambizione di prevedere il futuro, «perché non è possibile». Però, sfogliando le 160 pagine appena pubblicate, che sono costate circa quattro anni di lavoro, si ha l’impressione di entrare davvero in un mondo alternativo, nonostante le analisi puntino solo a capire quali saranno le grandi tendenze globali tra diciotto anni. Sul piano geopolitico, la novità fondamentale è già definita da tempo.La crescita in Cina frenerà e la popolazione attiva nel lavoro si stabilizzerà appena sotto il miliardo di persone, ma la Repubblica popolare scavalcherà comunque gli Usa come prima economia mondiale. Il vantaggio dell’America è che riuscirà a diventare indipendente sul piano energetico, e questo avrà un grande impatto politico perché diminuirà l’influenza del Medio Oriente, la Russia, il Venezuela. L’Europa continuerà il suo lento declino, provocato soprattutto dall’invecchiamento della popolazione, e in questo senso colpisce vedere l’Italia citata nel grafico a pagina 17, dove viene descritta come uno dei Paesi che al momento riescono ancora a contare sulla scena mondiale più del loro peso effettivo. Ma anche Germania, Francia e Gran Bretagna sono nella stessa condizione, e tutti perderemo terreno, se le nascite non smetteranno di calare. Politica e società dovrebbero abbracciare una nuova visione, un nuovo entusiasmo centrato sulla forza collettiva del nostro continente, per cambiare marcia. Sono tre gli scenari previsti per l’Europa: «Collapse», dove un’uscita disordinata della Grecia dall’euro provoca danni otto volte più gravi della crisi Lehman Brothers, e di fatto dissolve l’Unione; «Renaissaince», dove con un colpo di coda riusciamo davvero ad integrarci e avviare così un nuovo Rinascimento economico, politico e culturale; «Slow Decline», il più probabile galleggiamento verso il basso, pur conservando influenza.  L’Occidente comunque prederà la supremazia accumulata a partire dal ’700, e quindi il nostro tempo porterà un mutamento storico paragonabile a quello della Rivoluzione francese o la fine della Guerra Fredda. Alcuni Stati falliranno, con la classifica guidata da Somalia, Burundi e Yemen. Altri esploderanno ancora di più, tipo Brasile, India, Colombia, Indonesia, Nigeria, Sudafrica e Turchia. Il terrorismo islamico diminuirà, mentre gli sviluppi della Primavera araba apriranno le porte del potere ai governi a guida musulmana. I risultati continueranno ad essere contraddittori, come vediamo in questi giorni in Egitto, e l’esplosione di una guerra in Medio Oriente resta una delle minacce più gravi,soprattutto per le tensioni tra sunniti e sciiti. Però questi esperimenti,uniti al ridotto peso della regione sul piano energetico, potrebbero anche diminuire le tensioni.  Sul piano sociale, il fenomeno più significativo sarà la continua crescita della classe media. Questa tendenza, accompagnata dalla potenza delle nuove tecnologie, aumenterà sempre di più il potere degli individui. Gli Stati dovranno rassegnarsi ad un rapporto diverso con i loro cittadini, e in molti casi dovranno accettare di essere affiancati o soppiantati dalla società civile. Anche i progressi costanti della medicina daranno più forza agli individui, al punto che potremo programmare e migliorare i nostri corpi. Impianti di retina per potenziare la vista anche di notte, interventi neurologici per rafforzare memoria e velocità di pensiero. Ai computer, smartphone e tablet, si aggiungeranno veri e propri interfaccia tra cervello e macchine, in grado di accrescere le nostre capacità mentali oltre l’immaginabile, oltre l’umano. Affascinante e insieme pericoloso, questo nuovo mondo: ma come funzionerà? L’intelligence Usa prevede quattro scenari. Il peggiore si chiama «Stalled Engines»: Europa e Usa si fermano, si ripiegano su loro stessi, e la globalizzazione va in stallo. Poi c’è «Gini-Out-of-the-Bottle», ossia un mondo destabilizzato dall’ineguaglianza economica, dove può succedere di tutto, ma sicuramente aumentano i conflitti tra i singoli Stati. Si vira verso un moderato ottimismo con lo scenario «Non state World», in cui il peso degli Stati nazionali precipita, ma al loro posto emergono nuovi protagonisti responsabili, come le megalopoli dove vivranno due terzi della popolazione mondiale, che assumeranno la leadership su temi di interesse comune tipo ambiente e sviluppo. L’ipotesi preferita dall’intelligence americana, però, è la quarta, chiamata «Fusion»: qui Pechino e Washington diventano alleate, e lavorano insieme per guidare il mondo verso un futuro stabile e felice.

La Globalizzazione al contrario? Buon segno ?

Torino, 10 dicembre 2012


http://www.imf.org/external/index.htm
E' veramente interessante riflettere su questo ottimo articolo di Rampini su Repubblica e ripreso (in questo caso) dal sito Dagospia.
Se la globalizzazione ha portato benefici ai Paesi BRIC (Brasile, Russia, India, Cina e poi anche Sud Africa) grazie anche alle massicce delocalizzazioni operate dai tradizionali Paesi del G7 tra gli anni '90/primi anni del 2000 con conseguenze nefaste, non certo sugli utili aziendali, ma su molte dinamiche macroeconomiche interne degli stessi Paesi più industrializzati (calo degli investimenti, dei consumi +, per altri motivi, politiche di austerity riguardo al debito pubblico, alto tasso di disoccupazione, conseguente calo del Pil = recessione) non può che essere visto "COME UN MIRAGGIO NEL DESERTO" la notizia di una ricollocazione di nuovi  insediamenti manifatturieri in Usa.
E' solo da qui che possiamo tiraci fuori dalle sacche di un tunnel senza luce al fondo.
Ecco il testo:

Il tasso di disoccupazione è ai minimi da quattro anni (7,7 per cento). Per tutto il 2012 la creazione di nuovi posti di lavoro viaggia al ritmo di 150 mila ogni mese. Ci sarebbe già di che farci sognare. Ma dietro la ripresa americana c'è dell'altro: una rinascita della vocazione manifatturiera. Il revival del made in Usa è cominciato.

A sorpresa, smentisce quella "regola ferrea" della globalizzazione che dagli anni Novanta ha imposto di delocalizzare i mestieri industriali verso paesi a basso costo del lavoro: in Asia, in Sudamerica, o nell'Est europeo. «Dai due ai tre milioni di posti di lavoro nei prossimi cinque anni», è il traguardo che il Boston Consulting Group considera realistico per l'industria americana (esclusi i servizi).

Posti di lavoro domestici, sul territorio nazionale: colletti blu, tecnici, ingegneri della produzione. Una svolta inattesa. Anche se Barack Obama la persegue dall'inizio del suo mandato, la missione di "reindustrializzare l'America" sembrava a molti una chimera. E invece sta accadendo, con protagonisti illustri. Apple annuncia che riporterà alcune produzioni di computer negli Stati Uniti. Altre aziende informatiche l'hanno preceduta.
Tutte le case automobilistiche qui hanno ripreso ad assumere da oltre due anni. C'è perfino un ritorno di marche di abbigliamento, le prime che fuggirono verso l'Estremo Oriente. Elettrodomestici. Mobili. Macchinari. L'elenco dei settori contagiati da questa "ondata patriottica" è lungo. Ma le considerazioni politiche e d'immagine - che pure pesano - non bastano a spiegare questi segnali d'inversione di tendenza.

Vent'anni dopo il trattato Nafta (libero scambio nordamericano) e il mercato unico europeo che segnarono l'inizio della globalizzazione "versione 2.0"; undici anni dopo l'ingresso della Cina nell'Organizzazione mondiale del commercio, si sta aprendo una nuova fase? Per Harold Sirkin, che ha diretto lo studio per il Boston Consulting, «qualcosa sta cambiando nelle dinamiche dei costi relativi, coi salari cinesi che crescono velocemente, mentre i lavoratori americani mantengono una produttività quattro volte superiore». Il vantaggio di produttività è l'effetto un elevato volume d'investimenti da parte delle imprese. Il risultato: secondo questa ricerca, gli Stati Uniti possono riportare a casa 100 miliardi di Pil solo nell'attività manifatturiera.

È evidente la potenza simbolica di Apple. Per tante ragioni. Il colosso fondato da Steve Jobs oggi è la più grande società del mondo per il suo valore in Borsa. È identificata con il meglio della tecnologia americana, la capacità d'inventare e rinnovarsi continuamente, d'imporre trend e mode che contagiano il mondo, rivoluzionano il nostro modo di consumare informazioni, immagini, musica, o di comunicare fra noi. Proprio Apple, d'altra parte, aveva sancito in modo apparentemente irrevocabile la fine di una vocazione manifatturiera americana. Fa testo quella scritta che appare su tutti i suoi prodotti: "Designed in California. Assembled in China".

Come a dire: la Silicon Valley conserva una leadership nel progettare, concepire, disegnare. Ma la produzione di oggetti appartiene ad altre zone del mondo. Proprio Tim Cook, il successore di Jobs e attuale chief executive, fu il cervello strategico della "catena asiatica" di produzione, tra la Foxconn di Shenzhen e altre basi operative a Taiwan. Perciò colpisce che oggi sia Cook ad annunciare un primo investimento di 100 milioni per riportare negli Stati Uniti alcune produzioni («non solo assemblaggio», precisa) di computer Mac. Proprio quelli che abbandonarono la cittadina di Fremont (a sud di san Francisco) dieci anni fa.
«Abbiamo la responsabilità di creare occupazione nel nostro paese», dice Cook. La frase può suscitare il sospetto che si tratti di un'operazione politica, per ingraziarsi un'Amministrazione Obama rinvigorita dalla seconda vittoria elettorale. Tanto più che l'immagine di Apple è stata macchiata dai ripetuti scandali del suo fornitore cinese (abusi contro gli operai, catene di suicidi, scioperi). Ma gli esperti spiegano che c'è ancheuna logica economica dietro il "ritorno a casa".
Eventi come lo tsunami in Giappone o le inondazioni in Tailandia hanno messo in evidenza la fragilità di una catena logistica troppo dilatata. Dal controllo di qualità alla flessibilità nel rispondere a nuove condizioni di mercato, la prossimità al consumatore torna ad avere delle attrattive.
Se Apple fa sempre notizia, altri l'avevano preceduta, nel suo stesso settore. Hewlett Packard, che vende 50 milioni di personal computer all'anno, ne produce una parte a Indianapolis. «È importante poter soddisfare gli ordinativi del cliente americano in cinque giorni», spiega il suo vicepresidente Tony Prophet. Il leader mondiale dei microprocessori, Intel, ha fabbriche in Oregon e Arizona. Perfino la cinese Lenovo, che rilevò la divisione pc di Ibm, di recente ha assunto 115 operai come avanguardia di una nuova produzione in North Carolina. È un'inversione netta rispetto al 2008, quando alla vigilia della prima elezione di Obama la texana Dell chiuse la sua fabbrica di Austin per delocalizzare in Cina.

Altri settori confermano la tendenza. General Electric ha assunto operai qui in America per produzioni che vanno dai frigoriferi alle lavastoviglie, dalle lavatrici alle caldaie. Continental investe 500 milioni per una nuova fabbrica di pneumatici nella South Carolina, da 1.600 posti. La Ford ha assunto di recente altri 1.200 operai nel Michigan. Volkswagen e Honda hanno aumentato i loro organici nel Tennessee e nell'Indiana.
Nel settore dell'auto incidono le concessioni salariali fatte dal sindacato metalmeccanico durante l'ultima crisi. Alla General Motors e alla Chrysler la confederazione United Auto Workers ha accettato che i nuovi assunti guadagnino poco più della metà. Ma il rilancio delle assunzioni è stato possibile anche perché la "cura Obama" (auto più piccole e "verdi", tutela del potere d'acquisto attraverso le manovre anti-recessive) ha fatto ripartire il mercato di consumo, compresi gli acquisti di vetture.

Il caso più clamoroso è nell'abbigliamento.
Sulle orme di American Apparel, la startup di San Francisco American Giant diventa l'altra marca "tutta made in Usa". Grazie a una distribuzione fatta esclusivamente su Internet, taglia i costi d'intermediazione e così diventa competitiva con le fabbriche delocalizzate in Asia.
Cotone all'antica, zero poliestere, con queste ricette American Giant ha un tasso di redditività superiore a giganti come Levi's. Pubblicizza maglioni "fatti per durare una vita", e ha fabbriche solo dentro i confini nazionali. Fa impressione perché il tessile fu il pesce-pilota nelle delocalizzazioni.

La Banca mondiale conferma che qualcosa sta cambiando nei rapporti di forze e nell'equazione della competitività. La sua classifica sulle nazioni "dov'è più facile fare impresa" vede una rimonta degli Stati Uniti, mentre regrediscono India e Brasile. Tra i fattori chiave: il costo dell'energia continua a calare negli Stati Uniti; l'automazione riduce l'incidenza dei salari; l'immigrazione negli Stati Uniti ringiovanisce la forza lavoro e al tempo stesso garantisce una crescita costante della platea dei consumatori. Non guasta la politica del dollaro debole perseguita dalla Federal Reserve, che rende meno care le esportazioni made in Usa.
Qualche merito va pur dato a Obama, che della "ricostruzione industriale dell'America" fece una bandiera già quattro anni fa. «Le politiche contano - dice il capo dei suoi consiglieri economici Gene Sperling - perché dal sostegno alla ricerca tecnologica fino agli investimenti in infrastrutture, abbiamo fatto di tutto per aiutare questo circolo virtuoso».
Il ritorno dell'industria fa effetto valanga, attira emuli, inverte un processo di decadimento dell'intero tessuto industriale. Come sostiene Jared Bernstein che è stato il consigliere economico del vicepresidente Joe Biden: «Nulla è più distruttivo che lasciare milioni di lavoratori ai margini del processo produttivo, esposti al logoramento della loro capacità».