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Con che criteri affrontare le crisi valutarie prossime venture ?

Torino, 31 luglio 2011
Sulla questione delle valute ed in specie di euro e dollaro ma non solo (yuan in primis) in rapporto alle lore economie e debiti pubblici e la loro posizione sugli scenari mondiali (in sensio di peso relativo) sentiremo parlare spesso nelle prossime settimane, mesi e forse anni.
La questione rimanda a quello che  ormai da un pò si va predicando sulla possibilità di un nuove ordine mondiale da quando si è affernmata la globalizzazione. Saltantando (più del solito) schemi di regole scritte e non di teoria e politica economica e soprattutto tra quella finanziaria e l'economia reale si sono persi paradigmi su cui era quasi "convenzionale" fare i policies makers.
Troppo disordine tra regole vecchie ed etica nel cestino tra new assets allocation e risorse e distribuzione delle stesse, aspetti ambientali e di fonti energentiche (approvigionamento, distribuzione, new business).
Chi fa che cosa dove  e con che prospettive nel mondo dell'economia, della finanza e della produzione in generale ?? Con che strumento e soprattutto quale "metro" monetario (e finanziario) usare ?
Dunque l'articolo odierno apparso su La Stampa online di Mario Deaglio sulle possibili conseguenze di una precarietà in aumento a livello valutario mi sembra un buon "passaggio" per discutere  di un argomento che si ripropporrà, come detto, spesso nel prossimo futuro.
Per fare una previsione economica credo proponibile un "periodo di salvezza mondiale" con un ritorno a cambi flessibili legati a un qualcosa in modo da porre le condizioni, in una prima fase per la  riscruttura di regole e in una seconda fase, a mercati di nuovo ristabilizzati grazie ad un assetto mondiale riordinato, di lasciare al mercato stesso di portarci dove vuole seconde le regole tradizionali fin qua conosciute.
Da La Stampa online di oggi a cura di Mario Deaglio:
Il volto teso del presidente Obama che si rivolge ancora una volta ai suoi concittadini perché facciano pressione sul Parlamento e consentano, con una legge, all’amministrazione pubblica di funzionare normalmente può essere ben considerato come l’icona del possibile tramonto degli Stati Uniti quale Paese leader dell’economia mondiale. E, al tempo stesso, dell’incapacità della politica nei Paesi avanzati di fornire all’economia il supporto necessario per tornare a crescere, fornire sufficiente ricchezza e rilanciare la speranza nel futuro.
Il vuoto legislativo creato dalla risoluta volontà di una minoranza di parlamentari repubblicani di impedire l’innalzamento del tetto del debito che il governo americano è autorizzato a contrarre è infatti molto più che un tatticismo da guardare con indulgenza. Altre volte in passato quest’arma è stata usata nelle schermaglie americane di Washington, ma ora segnala un non riconoscimento o uno stravolgimento della posizione internazionale degli Stati Uniti, una grave, colpevole noncuranza per il ruolo del dollaro nel sistema internazionale. Se anche alzeranno il «tetto» del debito che il governo federale è autorizzato a contrarre, i  parlamentari repubblicani pensano di alzarlo di poco, in modo da poter tornare di qui a qualche mese a riproporre fortemente la loro concezione - si potrebbe dire il loro «ricatto» - di uno Stato minimo e di una ricchezza privata quasi priva di imposte. Siamo così di fronte al paradosso per cui il resto del mondo non avrebbe difficoltà ad acquistare, come ha sempre fatto, titoli del Tesoro degli Stati Uniti nonostante il deficit stia aumentando molto velocemente; tranne il piccolo particolare che una legge potrebbe impedire al Tesoro degli Stati Uniti di pagare gli interessi e rimborsare il prestito. Un brivido scuote così nuovamente, in questo agitato fine settimana, il castello di carte della finanza internazionale. Il paradosso si aggrava considerando che il resto del mondo ricco non è in condizioni di dare alcun aiuto. Quasi in contemporanea al discorso di Obama, il primo ministro spagnolo Zapatero annunciava lo scioglimento del Parlamento e le elezioni anticipate. Tra i leader europei Zapatero era quello che, con maggior coerenza, lucidità e determinazione si era impegnato contro la crisi. Il ricorso alle urne, e la sua contemporanea dichiarazione di non volersi ricandidare, è un’ammissione chiara di sconfitta di fronte al malumore degli spagnoli per i sacrifici da affrontare.  Nel resto d’Europa, il governo inglese è alle prese con una delle crisi peggiori degli ultimi decenni che chiama in causa istituzioni sacrosante quali la stampa e la polizia; il Cancelliere tedesco e il Presidente francese devono affrontare una crescente impopolarità che li ha portati a una sconfitta dopo l’altra nelle elezioni locali e a una clamorosa perdita di consenso nei sondaggi di opinione. Per non parlare del Belgio senza governo, dei Paesi Bassi e della Svezia con governi di minoranza, del «pasticcio» libico, del terrorismo norvegese.
In quest’impotenza generale si colloca la specifica impotenza italiana che è inutile ricordare nei dettagli a lettori che la vivono quotidianamente. Ci si sarebbe potuti aspettare una vibrante presa di posizione del ministro dell’Economia che denunciasse le massicce vendite, di marca chiaramente speculativa, di titoli del debito pubblico italiano da parte di pochi grandi operatori, tra cui alcune banche tedesche. Grazie a queste vendite, si assiste a un secondo paradosso, ossia che il debito pubblico italiano, da tutti definito solido fino a un paio di mesi fa, sia divenuto debolissimo sui mercati senza che nulla sia cambiato nella struttura e nella congiuntura dell’Italia. La denuncia - che è mancata anche per le difficoltà personali del ministro - avrebbe dovuto essere accompagnata da forti limitazioni, da attuare di concerto con gli altri Paesi della zona euro, nel tipo di contrattazioni ammesse, magari circoscritte ai soli contanti. C’è stato invece un quasi completo silenzio italiano: le meschinità della politica spicciola hanno monopolizzato l’attenzione di tutti e azzerato la nostra azione internazionale. I Paesi non toccati dalla paralisi della politica, come la Cina e l’India, non hanno forza sufficiente per avviare un’azione di contrasto alla crisi. La Cina vede con timore la propria economia andare fuori controllo, non rispondere più ai freni monetari, più volte azionati senza successo negli ultimi mesi, e teme lo scoppio di una bolla edilizia che metta fine a una crescita che, per oltre un decennio, è stata guardata dal resto del mondo con meraviglia e con invidia. L’India è alle prese con corruzione e inflazione, entrambe elevate. Brasile, Russia, Turchia e Sudafrica, Paesi dove l’economia e la politica sembrano «tenere», sono complessivamente troppo piccoli per fare massa critica.
In queste condizioni il rischio di un disordine monetario globale che porti con sé una grave debolezza dell’economia globale è sicuramente elevato, anche se vi sono ancora margini per azioni di contrasto. Come atto di normale prudenza, le banche centrali, i governi più lungimiranti e l’Unione Europea dovrebbero cercare di mettere a punto un «piano B», ossia un piano di emergenza da tenere nel cassetto. Nel caso di gravi perturbazioni nei mercati finanziari, tale piano potrebbe comportare la graduale e parziale sostituzione del dollaroccon una moneta «artificiale», un «paniere» di monete di cui il dollaro costituisca la parte prevalente ma senza l’indipendenza e la libertà di manovra di oggi. Naturalmente, le regole valutarie mondiali dovrebbero essere riscritte; del resto, successe nell’agosto di quarant’anni fa, quando gli Stati Uniti sganciarono il dollaro dall’oro senza alcuna consultazione. Potrebbe essere giunto il tempo di «riagganciarlo» a qualche cosa, di metterlo dentro un paniere, appunto.

Default Usa: pericolo ma non è la Grecia !!

Torino, 25 luglio 2011

Da La Stampa online di oggi di Alberto Bisin
Riflessione 3

Il presidente Obama sta negoziando coi repubblicani al Congresso un accordo su spesa e debito pubblico. Le negoziazioni procedono febbrilmente perché, in mancanza di un accordo in tempi brevissimi, il governo federale potrebbe non essere in grado di pagare i dipendenti pubblici, i creditori, e gli interessi sul proprio debito in esistenza. In questo caso, da un punto di vista letterale, gli Stati Uniti non farebbero fronte ai propri debiti e sarebbero quindi «in default». Come la Grecia.
Per quanto noi europei troviamo rassicurante immaginare gli Stati Uniti mentre nuotano in acque turbolente quanto le nostre, la situazione reale è ben diversa. Il default degli Stati Uniti, qualora avvenisse, sarebbe dovuto all’impossibilità di sorpassare un tetto legale all’indebitamento che il Congresso ha posto e che il Congresso può alzare con un voto e un tratto di penna: sarebbe quindi una questione legale, puramente contabile e avrebbe un significato soprattutto simbolico. I mercati non si sognano nemmeno di limitare il credito agli Stati Uniti, né di richiedere tassi elevati o crescenti per sottoscriverlo. Infatti i tassi sui titoli del Tesoro Usa sono stabili da tempo a livelli storicamente bassi; i tassi sui titoli a 6 mesi e oltre sono addirittura scesi nell’ultimo mesLa ragione dell’impasse legislativa sta nel fatto che il Congresso a maggioranza repubblicana è in una posizione di forza contrattuale notevole: rifiutandosi di votare l’innalzamento del tetto costringe l’amministrazione ad affrontare una crisi fiscale e un potenziale default che, per quanto simbolico, rappresenterebbe una figuraccia per Obama. In altre parole, i repubblicani stanno essenzialmente ricattando l’amministrazione Obama per ottenere che il governo si vincoli a quei tagli di spesa che essi considerano fondamentali per la crescita del Paese. In realtà un innalzamento del tetto sul debito pubblico tale da evitare il default fino al 2012 è già sul piatto della contrattazione, essendo stato offerto ieri dal presidente della Camera Boehner. Ma è un boccone avvelenato perché se Obama lo accettasse si aprirebbe una nuova stagione di negoziazioni proprio prima delle prossime elezioni presidenziali.
Gli Stati Uniti non sono la Grecia, quindi. E nemmeno la Spagna o l’Italia. I problemi di bilancio di questi Paesi sono infatti reali ed imminenti, nel senso che essi non trovano investitori disposti a finanziare il proprio debito, se non a spread elevati rispetto a Paesi i cui conti siano in ordine, come la Germania. Ciò non toglie però che gli Stati Uniti abbiano un problema fiscale serio ed importante, in parte dovuto alle spese militari e ai tagli fiscali dell’ultimo decennio così come alle spese per lo stimolo fiscale dopo la crisi del 2008. Inoltre, in prospettiva, la spesa per pensioni e sanità (dovuta quest’ultima sia al pre-esistente sistema sanitario per gli anziani che alla nuova riforma Obama) appaiono fuori controllo. Ma proprio il tetto legislativo al debito pubblico costringe gli Stati Uniti ad affrontare il loro problema fiscale oggi, ben prima che i nodi vengano al pettine. Qualunque cosa si pensi del ricatto a cui i repubblicani stanno sottoponendo l’amministrazione Obama, e qualunque cosa succeda nei prossimi giorni, gli Stati Uniti usciranno da questa crisi con un accordo che limiterà l’eccessiva spesa pubblica di qui a due anni almeno. Una soluzione politica ad un problema economico, che medierà tra le esigenze e le preferenze delle diverse classi di cittadini rappresentati da democratici e repubblicani, ben prima che i mercati operino pressione sul governo perché questo avvenga. Per quanto il meccanismo istituzionale del tetto al debito pubblico generi queste crisi un po’ fasulle, più contabili che altro, esso sembra in grado di raggiungere un obiettivo importante: costringere le parti a ridurre la spesa sedendosi ad un tavolo negoziale prima dell’emergenza.
E’ proprio questo che è mancato e ancora manca all’Europa

Euro dollaro: uno con il raffredore l'altro con la polmonite !!

Torino, 25 luglio 2011
Da La Stampa online di ieri a firma di Mario Deaglio
Riflessione 2
A Bruxelles un vistoso rattoppo che terrà per un poco ma che rischia di rendere necessari altri interventi. A Washington un vistoso strappo tra Camera e Presidente che fa sorgere interrogativi sulla tenuta del dollaro. Se ne ricava l’impressione di una crescente incapacità dei Paesi ricchi di governare il sistema monetario mondiale, il che getta ombre lunghe sui meccanismi della globalizzazione. Il sofferto accordo sul debito greco, raggiunto giovedì sera a Bruxelles dopo una trattativa difficile ed estenuante, è ricchissimo di codicilli e molto povero di idee, un accordo senza vincitori, dal quale tutti escono un po’ sconfitti. Non possono esserne soddisfatti i greci, i quali, pur avendo ottenuto sconti sugli interessi da pagare e un paracadute sul loro enorme debito, vedono nel comunicato finale la conferma della condanna della loro economia, non certo florida, a un lungo periodo di stagnazione e difficoltà. E neppure le banche creditrici, costrette a sottoscrivere «volontariamente» i nuovi titoli del debito pubblico greco man mano che quelli vecchi giungeranno a scadenza, con una correzione al ribasso degli utili previsti. Non esultano i tedeschi sui quali, indirettamente, ricadrà una parte del peso della manovra, e non sono allegri neppure i francesi che non sono riusciti a far passare l’idea di una tassazione europea.
I mercati internazionali rimangono scettici e l’opinione pubblica nervosa.
L’accordo avviene all’insegna di una ampia politica di tagli, che si tradurranno in un freno aggiuntivo all’economia, proprio mentre l’Europa ha bisogno di stimoli alla crescita.Non è solo la Confindustria a delineare la prospettiva inquietante di una produzione nuovamente stagnante nel terzo trimestre del 2011, in Germania gli indici di fiducia delle imprese sono bruscamente scesi ai valori di fine 2010 e analoghe cadute di fiducia si registrano tra le imprese francesi. Ottenere la stabilità dell’euro al prezzo di una stagnazione non sembra certo la più lungimirante delle politiche; anzi, non è neppure una politica, bensì una sorta di ondeggiamento continuo, senza una direzione precisa, da parte di un’Europa che non riesce a darsi una strategia per il proprio futuro.In realtà, l’Europa è su un piano inclinato. Può uscirne verso l’alto con la rinuncia dei vari Paesi dell’euro a una parte della loro sovranità in materia di politica economica a favore di un governo centrale, e quindi con l’europeizzazione di importanti capitoli nazionali di spesa pubblica e di importanti entrate fiscali; oppure può uscirne verso il basso, ricreando il sistema monetario europeo, con l’euro al centro e una moderata possibilità di fluttuazione delle valute nazionali. In ogni caso non può restare, e non resterà, perennemente immobile.La prospettiva risulta ancora più complessa in quanto le difficoltà dell’euro sono contestuali alle difficoltà del dollaro. A Washington è in corso ormai da mesi un incredibile braccio di ferro tra il presidente Obama e la maggioranza repubblicana della Camera dei Rappresentanti che si rifiuta di innalzare il tetto del debito pubblico (che negli Stati Uniti è stabilito per legge) senza ottenere in cambio imponenti tagli alla spesa pubblica. Venerdì sera i repubblicani hanno lasciato le trattative sbattendo la porta; se un accordo non verrà raggiunto entro il 2 di agosto, il Tesoro degli Stati Uniti potrebbe non disporre delle risorse per rimborsare i propri titoli in scadenza.Nessuno crede veramente a un simile scenario, che sancirebbe la fine ingloriosa del dollaro quale valuta internazionale: anche solo l’abbassamento della valutazione attribuita ai titoli pubblici americani appartiene più a uno scenario di fantaeconomia che a un serio esercizio previsivo. Eppure nessuno se la sente di escluderlo di fronte alla scarsa lungimiranza dei parlamentari americani, la cui attenzione, come per quelli europei, è pressoché totalmente concentrata sui giochi politici interni e sul brevissimo periodo. Ormai, sembrano esser solo i cinesi e i brasiliani a pensare in grande, ad effettuare analisi economiche e valutarie globali di lungo periodo.Anche ammettendo che i parlamentari americani non siano così folli e miopi da spingere il proprio Paese in un precipizio finanziario, la situazione degli Stati Uniti rimane debolissima per l’evidente fallimento della politica di stimolo monetario che fino a fine giugno per nove mesi ha «iniettato» nell’economia 2,5 miliardi di dollari al giorno. Con il solo risultato di far salire il prezzo delle materie prime, mentre la disoccupazione torna ad aumentare. A questo punto non si può non convenire con il premio Nobel Paul Krugman che, sul New York Times di giovedì, ha ammonito contro il pericolo di una «Piccola Depressione» che assomiglia alla «coda» della «Grande Depressione» degli Anni Trenta: nel 1937, il passaggio prematuro da una politica di stimoli fiscali a una politica fiscale restrittiva fece deragliare gli accenni di ripresa. E la depressione continuò fino a quando la Seconda guerra mondiale diede alla domanda lo stimolo che le politiche di pace non erano state in grado di fornire. Sappiamo bene a quale terribile prezzo.Fortunatamente siamo ben lontani dalle condizioni di allora. Sarebbe però opportuno che, sulle due rive dell’Atlantico, i banchieri centrali e i ministri economici quest’anno non andassero in vacanza. Per evitare di essere colti di sorpresa, nella quiete d’agosto, come successe nel 2007 e nel 2008, nel caso in cui una miope follia dovesse prevalere al Congresso americano o il «rattoppo» di Bruxelles non dovesse tenere.

Euro con inflazione programmata? Potrebbe essere una soluzione

Torino, 25 luglio 2011
In questo periodo quasi vacanziero tre sono le letture che vale la pena  riproporre.
Rigiardano tutte e tre l' euro, il dollaro e/o il loro rapporto.
Per certi voci sembra di essere tornati a parlare di cambi fluttanti e/o legati all'oro come una volta.
Questo Blog ne ha parlato più volte in tempi anche non sospetti !!
Le chiameremo riflessione 1, 2 e 3 con tre Post diversi.
Riflessione 1
4/7/2011
Da La Stampa del 4 luglio 2011

All'euro serve un'inflazione programmata di Giorgio La Malfa e Piergiorgio Gawronski
La crescita economica è tornata. Tranne in Europa e in particolare nell’area dell’euro, dove c’è la disoccupazione più alta, la crescita più bassa e dove un certo numero di Paesi rischia l’insolvenza. Un passo dopo l’altro, l’Europa si avvicina pericolosamente all’abisso di una crisi finanziaria che, partendo dai Paesi più esposti a causa del loro debito pubblico, può finire per investire l’euro in quanto tale. Non siamo affatto convinti che le autorità europee si rendano pienamente conto di questo rischio. Esse insistono esclusivamente sulla necessità assoluta di politiche di riduzione accelerata del debito pubblico. In sé non hanno torto visto il livello del debito pubblico in molti Paesi. Per addolcire la pillola, il governatore della Banca Centrale Europea, Trichet, ha ripetutamente affermato che l’austerità «rafforza la fiducia del settore privato», e per questa via «i consumi e gli investimenti». Questo è solo un atto di fede neoliberista nelle virtù dell’astinenza. Non c’è alcuna prova che le cose stiano così. Anzi vi è evidenza del contrario: le politiche di austerità nei Paesi con alto debito, aggravando la depressione della domanda interna, generano la spirale negativa osservata in Grecia, Irlanda, Portogallo, e che ormai lambisce il nostro Paese, come mostra il peggioramento dei giudizi delle agenzie di rating. I tagli alla spesa pubblica riducono crescita ed entrate fiscali; le «riforme strutturali» non aiutano la domanda; la deflazione accresce il peso reale dei debiti. E difatti la crisi greca si aggrava di mese in mese, e il conto diventa più salato (più stremata la Grecia, meno potrà restituire ai suoi creditori). In Irlanda, addirittura, i mercati hanno spinto i tassi d’interesse alle stelle nel 2010 dopo l’avvio del programma di austerità, man mano che le sue conseguenze si manifestavano. Anche sull’Italia incombe una manovra da 40 miliardi che introdurrà altre spinte depressive. Una nuova recessione metterebbe fine al sogno del «pareggio del bilancio» e ci avvicinerebbe all’esito greco. Ma anche non fare la manovra ci trascinerebbe nel vortice. Sembra di essere in un vicolo cieco. È proprio vero che non c’è una via di uscita? Il punto dal quale bisogna partire è che la definizione di una buona politica economica è particolarmente difficile perché ci si trova di fronte a un «trilemma». Bisogna cioè realizzare contemporaneamente tre obiettivi: un recupero della competitività, una crescita dei redditi, la riduzione del debito pubblico. Se non si vuole stimolare la crescita attraverso il deficit pubblico, giacché il debito è alto, bisogna accrescere la competitività. Ma se ci s’illude di accrescere la competitività abbassando i salari, si rischia di vedere crollare la domanda di beni consumo. In queste condizioni, come si diceva un tempo, per centrare tre obiettivi servono tre cannoni. Oggi ve n’è uno solo: la politica monetaria ed essa agisce in direzione contraria al raggiungimento dell’obiettivo della competitività perché tende a tenere alto il corso dell’euro rispetto alle altre valute. Se si vuole sperare di affrontare con successo il «trilemma», non servono le formule: il neo-liberismo non basta, come non serve l’ideologia anti-capitalista dell’estrema sinistra. Occorre stimolare la domanda. Se la politica di bilancio dei singoli Paesi deve essere restrittiva, da qualche altra parte deve venire uno stimolo alla crescita, per esempio dalla politica monetaria e dal tasso di cambio e forse anche dal bilancio delle istituzioni europee. Il problema è che l’Europa dell’euro è stata costruita con un solo pensiero: impedire l’inflazione e il debito pubblico che spesso in passato ne è stato causa. Nella stesura del trattato di Maastricht, prevalse la filosofia della Germania. Ciò che è grave è che le sue istituzioni non siano in grado di reagire in modo adeguato quando il problema non è l’inflazione ma la deflazione. Non può esservi soluzione alla crisi senza un contributo positivo della Banca Centrale Europea. Essa invece sta alzando i tassi d’interesse per combattere un nemico che non c’è (l’inflazione core è da anni sotto al 2%). Solo in un ambiente europeo caratterizzato dalla reflazione i Paesi in difficoltà possono sfuggire al «vortice greco». Solo così si risolve il trilemma della politica economica. La strategia si chiama «quantitative easing» cioè, in termini espliciti, «inflazione programmata». Parole – ci rendiamo conto che suonano anatema alle orecchie dei sacerdoti dell’ortodossia monetaria.
Un tasso d’inflazione programmato per quattro anni (2013-2016) al 3,5% in Europa (4,5% in Germania), e tassi d’interesse fermi all’1%, consentirebbero:
1) A tutta la struttura dei tassi d’interesse di posizionarsi su livelli reali negativi, stimolando la domanda interna e l’occupazione.
2) All’euro di ridurre il suo corso rispetto alle altre grandi valute, e ai Paesi in difficoltà di recuperare competitività in Europa senza cadere nella deflazione – cioè senza aggravare il peso del debito pubblico.
3) Una riduzione del valore reale dei debiti pubblici e un aumento delle entrate fiscali che aiuterebbe il successo delle manovre di risanamento dei bilanci.
Accanto a questo servirebbe qualche investimento europeo ben studiato e finanziato facendo ricorso a livello europeo alla leva del debito. Naturalmente, queste politiche sposterebbero il peso dei sacrifici dai lavoratori alle rendite. E questo non è un male. Quanto alla Germania, avendo un basso tasso d’inflazione potrebbe alzare i salari reali e godersi il frutto della sua coerenza in un quadro di stabilità del sistema bancario.
Ovviamente, per fare tutto questo bisogna cambiare la filosofia deflazionistica che è così profondamente connaturata all’Europa monetaria. Ma questa filosofia giorno dopo giorno inesorabilmente alimenta la crisi. L’Europa è inchiodata alla croce dell’ortodossia monetaria, con conseguenze nefaste che riguardano tutti. Noi pensiamo che solo un atto di coraggio collettivo potrà salvare l’Europa e l’euro. È ora di cambiare strada.