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Quando le parole sono spese bene!!!!

Torino, 15 settembre 2013

In questa babele di parole tra talkshow, telegiornali, giornalisti pontificatori senza neanche saper scrivere l'italiano o confondendo la Corte dei Diritti dell'Uomo di Strasburgo con la Corte di Giustizia di Lussemburgo per il caso Berlusconi (due istituzioni completamente autonome e diverse per statuto e scopi l'una dall'altra), politici che non sanno l'acronimo di IMU dopo mesi e mesi di discussioni,  certi social network assurdi come lo sono i "derivati" in economia finalmente 5 minuti ben spesi a leggere un mirabile articolo per lucidità, esaustività e concisione  di Pansa su Libero di ieri 14 settembre 2013. Un piccolo gioiello sul comune pensare di milioni e milioni di italiani!!! Ecco il testo che volentieri ripropongo.

 


Pansa: "Quasi quasi divento un tifoso grillino"

Pdl e Pd sono rimasti senza leader, hanno sempre meno tessere e interi pezzi di Paese (vedi Ilva e Val di Susa) sono fuori controllo. E così...

 
Il ribaltone: in questa povera Italia quasi quasi 
io voto Beppe Grillo...
Giampaolo Pansa
 
Un tifoso del Duce stellare? Non credo che lo diventerò mai. Ma la tentazione comincia ad affacciarsi. E se spunta dentro di me è un bel guaio, perché può emergere in tanti altri meno difesi del sottoscritto grazie al suo innato qualunquismo. Non credo di averlo mai confessato, ma sono sempre stato molto scettico nei confronti dei partiti. È un atteggiamento che ho ereditato da mia madre Giovanna. Era una modista e pellicciaia, con un negozio ben avviato nel centro della nostra piccola città. E tra la sua clientela aveva anche le mogli e le amanti dei politici locali. 
Negli inevitabili cicì e ciciò che affiorano sempre nei negozi frequentati da donne, venivano allo scoperto i difetti dei maschi con la bacchetta in mano. Erano difetti da poco, perché negli anni Cinquanta e Sessanta la politica risultava di costumi ben più modesti di quella odierna. Eppure già allora si notavano i primi vizi di un ceto che sembrava illibato. Mia madre ascoltava quelle sue clienti con uno scetticismo crescente.   
Quando ho iniziato a lavorare nei giornali, e ho preso a occuparmi soprattutto della politica italiana e dei partiti che ne erano i padroni, ho scoperto che il qualunquismo di mia madre era l’atteggiamento giusto per un cronista del Palazzo, come si diceva allora. Ne sono convinto ancora oggi: il buon giornalista che scrive di politica interna ha l’obbligo di essere uno scettico totale, non deve credere a nessuno, guai se fa il tifo per una delle squadre in campo. Arrivo a dire che non deve aver fiducia neppure nei confronti dei leader che stima. Per un principio vecchio quanto il mondo: la natura umana è debole e chi sta molto in alto può rivelarsi un peccatore che non merita clemenza. Ecco il tipo di qualunquismo che mi difende. 
Ma adesso, in questo caotico settembre 2013, gli errori dei nostri politici stanno diventando davvero troppi. In tanti anni non ho mai visto un disastro così continuo, insistente e pericoloso. Nel dibattito tra i partiti domina l’odio reciproco, la voglia di distruggersi a vicenda, l’incapacità a trovare quel minimo di concordia, o di compromesso, necessario per non mandare all’aria l’intera baracca. Anche i big o i vip a caccia di posti importanti, invece di mostrarsi responsabili, si comportano da pecore matte. Straparlano, dicono enormità, rivelano una colpevole indifferenza ai doveri del rango che cercano. 
Volete un nome? Matteo Renzi, il democratico candidato a tutto. L’Italia ha bisogno come il pane di un governo che sia stabile e duri per l’intero tempo previsto. E invece il Renzi che fa? Blatera: «Questa cosa del governo che deve durare è un tic andreottiano». Poi insulta Enrico Letta, dicendo che «si preoccupa della seggiola a Palazzo Chigi, mentre dovrebbe pensare anche al paese». 
Posso dire che Renzi si comporta da fesso? No, non posso dirlo, l’etichetta non me lo consente. Posso dire almeno che il governatore della Liguria, Claudio Burlando, esperto di funghi, anche lui è un fesso perché si mette in congedo per motivi famigliari, e invece va in cerca di porcini e poi li mostra nel proprio sito Internet? No, lo stile mi vieta di dar del fesso pure al Signor Governatore democratico. 
Anche sul fronte del centrodestra sono parecchi i necrofori che sperano nel decesso del governo Letta. Una vip la conosciamo tutti: è Daniela Santanchè, la numero uno dei falchi berlusconiani. Ma è una signora che si fa guardare con piacere da un vecchio maschio come il sottoscritto, dunque sul suo conto non dirò nulla. Tuttavia il falchismo della Pitonessa ha fatto scuola. Venerdì, sul Giornale c’era una lunga pippa di Sandro Bondi che invitava a staccare la spina al governo. Però la prosa di Bondi, persona mite e per bene, è troppo rocciosa e non ce l’ho fatta a leggere il suo proclama. Urge mandarlo a una scuola di scrittura, per esempio la Holden di Alessandro Baricco, e forse smetterà di essere noioso.  
Purtroppo non esiste nessun corso di lezioni che renda meno gretto ed egoista il nostro ceto politico. È da tanto tempo che si discute di abolire il finanziamento pubblico dei partiti. Il dibattito continua, implacabile, però nessuna decisione viene presa. In questa metà di settembre i giornali avvertono: «Dopo tre mesi, si riparte da zero». L’impotenza è diventata la malattia dilagante nel Palazzo. I partiti accusano il governo Letta di ritardare le decisioni, in realtà è il sinedrio politico che si ritrae davanti alla necessità di scegliere. 
Siamo di fronte a un vizio assurdo che tocca l’apice in val di Susa. Qui i No Tav stanno gettando le basi di un nuovo terrorismo. Per intuire che cosa accadrà, basta leggere il reportage di Cristina Giudici, apparso sul Foglio di venerdì: «La valle della paura. Dove il luddismo dei No Tav prepara il suo violento salto di qualità». Ma a Roma i partiti se ne fottono. I grillini sono corsi a sostenere i guerriglieri. Soltanto qualche isolato parlamentare con la testa sul collo osa farsi vedere lassù. Rischia la pelle, però nessuno del Palazzo ha il coraggio di accompagnarlo. 
Il discredito della politica è ormai così forte da generare un fenomeno che nessuno si attendeva: la morte lenta dei talk show televisivi. Le emittenti che avevano puntato su questi spettacoli dovranno presto cambiare i palinsesti. Mi sono stancato persino io. Quando accendo la tivù e vedo le solite facce che si guardano in cagnesco, scappo altrove senza esitare. Sperando di trovare qualche vecchio film in bianco nero, per esempio Campane a martello di Luigi Zampa, anno 1949. Che ci mostra le grazie giovani di Gina Lollobrigida e di quella indimenticabile maggiorata di Yvonne Sanson. Meglio la Gina e la Yvonne che la Serracchiani e Schifani. 
Se il pubblico rifiuta i talk show, possiamo immaginare come si comporti quando viene richiesto di iscriversi a un partito. Il tesseramento si sta riducendo a vista d’occhio. In molte regioni, a cominciare dalla rossa Toscana, il rinnovo delle iscrizioni al Partito democratico è ancora al di sotto del cinquanta per cento. Al 13 settembre, nelle province toscane soltanto ventimila dei 55 mila iscritti del 2012 avevano confermato la loro adesione. 
Dal Pdl, o da Forza Italia, non arriva nessuna notizia a proposito di tessere. Ma anche nel partito di Berlusconi le campane stanno suonando a morto. I rintocchi funebri erano già iniziati dopo il voto del febbraio 2013. Allora, rispetto al 2008, il Pdl aveva perso sei milioni e mezzo di voti. Il Pd ne aveva lasciati per strada tre milioni e mezzo. Sulla Stampa un’eccellente politologa, Elisabetta Gualmini, ha scritto: «Questi due partiti sono senza leader. Il Pdl ha un leader in esilio. E il Pd è in attesa di un leader. La politica italiana è prossima al default». Ossia alla bancarotta.    
 Non sono così masochista da augurarmi la fine dei partiti. Anche perché non sappiamo chi potrebbe sostituirli, dopo il loro fallimento. Oggi sono ancora un male necessario. Ma il futuro è sempre imprevedibile e si presenta come una minacciosa nuvola nera. Tutto può accadere. È vietato soltanto immaginare che al posto della politica comandi la magistratura. 
 Quanto sta accadendo all’Ilva di Taranto grida vendetta. Antonio Gozzi, il presidente della Federacciai, l’associazione tra gli industriali siderurgici, ha dichiarato che la magistratura vuole «far fallire i Riva». Mi auguro che si sbagli. Altrimenti il rischio di una dittatura delle toghe, invece di essere un trucido argomento di polemica, diventerà una tragica realtà. 
   
 
 
 

 

         
 




La lezione dalla Cina. L'Occidente deve pensare sempre più a "creatività", servizi e produzioni ad alto valore aggiunto !!

Torino, 5 agosto 2013
 
Si discute sempre più spesso qual è la mission e di conseguenza la ricetta  dei Paesi più industrializzati per creare sviluppo. Nonostante che i sistemi economici avanzati si siano fondati sempre sulla crescita del manifatturiero, che comunque rimane pur sempre un cardine dello sviluppo, la globalizzazione indica che l'allocazione dei fattori produttivi non conosce confini. Che sia la Serbia, la Polonia, il Brasile o la Cina le produzioni tradizionali  con know how consolidato si trasferiscono ancora per lo più dove il costo della manodopera è meno cara. Una ragione nota ma che serve ancora una volta in più per far sì che i Paesi occidentali "si inventino" dei modus operandi di strategia innovativa per la crescita e tenersi, con una più alta redditività, l'ingerizzazione dei processi produttivi anche con il manifatturiero ma come tipologie innovative rispetto al passato.
Illuminante in questo senso l'articolo pubblicato oggi su La Stampa online di Enrico Moretti.
Ecco che ve lo riproponiamo volentieri.
 
L’ADDIO DI USA ED EUROPA A FABBRICHE E OPERAI - TECNOLOGIA E GLOBALIZZAZIONE HANNO SPOSTATO IN CINA LA CATENA DI MONTAGGIO MONDIALE
L’industria manifatturiera americana, e parte di quella europea, si sono trasferite a Shenzen - Nella megalopoli cinese, dove si assemblano iPhone e iPad, c’è una marea di stabilimenti produttivi e uno dei porti più trafficati del mondo (ogni anno si muovono 25 milioni di container)…
Enrico Moretti per "la Stampa"
La cartina economica del mondo sta cambiando rapidamente e radicalmente. Nuovi centri di propulsione economica stanno soppiantando i vecchi. Città che fino a qualche decennio fa non erano che minuscoli punti a stento percepibili sulle cartine si sono trasformate in floride megalopoli con migliaia di nuove aziende e milioni di nuovi posti di lavoro.
In nessun luogo al mondo tale fenomeno è più evidente che nella cinese Shenzhen. Se non l'avete mai sentita nominare, prendetene nota. È uno dei centri urbani con il più rapido ritmo di crescita a livello mondiale.
In trent'anni si è trasformata da piccolo villaggio di pescatori a immane metropoli di oltre 15 milioni di persone. Shenzhen ha visto crescere la propria popolazione di 300 volte; e in questo processo è diventata una delle capitali dell'industria manifatturiera del pianeta.
Il suo destino fu deciso nel 1979, quando le autorità cinesi si risolsero a farne la prima «Zona Economica Speciale» del Paese. In breve tempo le aree di questo tipo cominciarono a calamitare investimenti esteri. Il flusso degli investimenti fece sorgere migliaia di nuove fabbriche che producono una parte sempre crescente dei beni di consumo dei paesi ricchi.
Una porzione consistente dell'industria manifatturiera americana si è trasferita in quelle fabbriche. Mentre Detroit e Cleveland perdevano posti di lavoro e si avviavano al declino, Shenzhen prendeva quota. Oggi è disseminata di grandi stabilimenti produttivi. È al primo posto tra i centri della Cina per volume di esportazioni e vanta uno dei porti più trafficati del mondo, pieno di gru enormi, camion imponenti e container di tutti i colori, che vengono trasferiti su navi da carico pronte a salpare per la costa occidentale degli Stati Uniti o per l'Europa.

Ogni anno lasciano il porto venticinque milioni di container: quasi uno al secondo. In poche settimane la merce arriva a Los Angeles, Rotterdam o Genova e viene immediatamente caricata su un camion diretto verso un centro di distribuzione Walmart, un magazzino Ikea o un Apple store.
Shenzhen è il luogo dove vengono assemblati l'iPhone e l'Ipad, esempi iconici della globalizzazione. La Apple è nota per dedicare grande attenzione e risorse alla progettazione e al design. Nel caso dell'iPhone e dell'iPad, la Apple ha dedicato la stessa attenzione alla progettazione e all'ottimizzazione della catena di produzione globale. Capire come e dove si svolge la produzione di celebri smartphone e tablet è importante per capire come la nuova economia globale stia ridisegnando la localizzazione dei posti di lavoro e quali siano le sfide del futuro per i lavoratori dei Paesi occidentali.

L'iPhone e iPad sono stati concepiti e progettati dagli ingegneri della Apple a Cupertino, in California. Questa è l'unica fase del processo di produzione realizzata negli Stati Uniti. Vi rientrano il design del prodotto, lo sviluppo di software e hardware, la gestione commerciale, il marketing e altre funzioni ad alto valore aggiunto. In questo stadio i costi del lavoro non rappresentano il fattore principale. Gli elementi chiave sono piuttosto la creatività e l'inventiva degli ingeneri e dei designer.
I componenti elettronici dell'iPhone - sofisticati, ma non innovativi quanto il design - sono fabbricati in gran parte a Singapore e Taiwan. L'ultima fase della produzione è quella a più elevata intensità di manodopera, con gli operai che assemblano a mano le centinaia di componenti che costituiscono il telefono e lo predispongono per la distribuzione. Questo stadio, in cui il fattore essenziale è il costo del lavoro, si svolge nella periferia di Shenzhen.

Lo stabilimento è uno dei più grandi al mondo e le sue dimensioni sono già in sé qualcosa di straordinario: con 400.000 dipendenti, supermercati, dormitori, campi da pallavolo e persino sale cinematografiche, più che una fabbrica sembra una città. Se comprate un iPhone online, vi viene spedito direttamente da Shenzhen. E quando raggiunge il consumatore americano il prodotto finale è stato toccato da un solo lavoratore americano: l'addetto alle consegne dell'Ups.
È naturale, quindi, domandarsi che cosa resterà ai lavoratori americani (e per estensione, europei) nei prossimi decenni. L'America e l'Europa stanno entrando in una fase di irreversibile declino? La risposta, almeno per l'America, è ottimistica. Per l'Europa, un po' meno. Nel XX secolo, la ricchezza di un Paese era in gran parte determinata dalla forza del suo settore manifatturiero.
Oggi questo sta cambiano. In tutti i Paesi occidentali, l'occupazione nell'industria manifatturiera sta calando ormai da trent'anni. Come si vede dalla figura, questo trend accomuna un po' tutte le società avanzate, dagli Stati Uniti al Giappone, dalla Gran Bretagna all'Italia e persino la Germania.
Oggi l'impiego nell'industria rappresenta più l'eccezione che la regola: in America, meno di un lavoratore su dieci lavora in fabbrica. E' molto più probabile che un americano lavori in un ristorante che in una fabbrica. Dal 1985 negli Stati Uniti l'industria manifatturiera ha perso in media 372.000 posti di lavoro all'anno.

Questo declino non è solo l'effetto di fenomeni a breve termine, come le recessioni: l'industria perde posti di lavoro anche durante le fasi di espansione. Le ragioni sono due forze economiche profonde: progresso tecnologico e globalizzazione. Grazie agli investimenti in sofisticati macchinari di nuova concezione, le fabbriche occidentali sono molto più efficienti che in passato e per produrre la stessa quantità di beni impiegano sempre meno manodopera.
Oggi, in media, l'operaio americano fabbrica ogni anno beni per 180.000 dollari, oltre il triplo che nel 1978. Per l'economia in generale l'accresciuta produttività è un'ottima cosa, ma per le tute blu ha conseguenze negative. Pensiamo, per esempio, alla General Motors.
Negli Anni 50, gli anni d'oro di Detroit, ogni operaio dell'azienda produceva una media di sette auto l'anno. Oggi ne produce 29 all'anno. Il calcolo dei posti di lavoro persi è molto semplice: per fabbricare ogni auto oggi la General Motors impiega un numero di operai quattro volte inferiore a quello del 1950. Gli operai dell'industria producono più che in passato, e di conseguenza guadagnano stipendi più alti, ma sono numericamente ridotti.
La seconda forza che sta decimando l'occupazione manifatturiera dei paesi occidentali è la globalizzazione. Le produzioni più tradizionali sono state le prime a essere delocalizzate. L'industria tessile è l'esempio più ovvio. Provate a guardare dove sono fabbricati gli abiti che indossate.

Se si tratta di capi venduti da una ditta occidentale, probabilmente sono stati prodotti da qualche terzista ubicato in Paesi come il Vietnam o il Bangladesh. I brand americani e europei godono di ottima salute, ma solo una manciata di posti di lavoro - nel design, nel marketing e nella distribuzione - sono rimasti negli Stati Uniti e in Europa.
Altre parti della manifattura tradizionale hanno esattamente le stesse dinamiche. Persino la produzione di componenti elettroniche, computer e semiconduttori non è immune da questi trend. Oggi, in America, lavorano nelle fabbriche di computer meno addetti che nel 1975, quando il personal computer non era ancora stato introdotto.
La ragione è che ormai fabbricare computer non è più particolarmente innovativo. L'hardware è diventata un'industria matura, quasi quanto il tessile. L'assemblaggio e la fabbricazione di molti componenti è stata trasferita in Cina o Taiwan. Il primo lotto di duecento computer Apple I fu assemblato nel 1976 da Steve Jobs e Steve Wozniak nel leggendario garage di Los Altos, nel cuore di Silicon Valley. Negli Anni 80 la Apple fabbricava la maggior parte dei suoi Mac in uno stabilimento situato poco lontano, a Fremont.

Ma nel 1992 l'impianto fu chiuso e la produzione spostata, prima in aree più economiche della California orientale e del Colorado, poi in Irlanda e a Singapore. Oggi a Shenzen. È lo schema seguito da tutte le altre imprese americane. Tutti conosciamo Apple, Ibm, Dell, Sony, Hp e Toshiba. Quasi nessuno ha mai sentito parlare di Quanta, Compal, Inventec, Wistron, Asustek. Eppure il 90% dei computer portatili e dei notebook venduti con quei marchi famosi è in realtà fabbricato negli impianti di una di queste cinque aziende, a Shenzhen.
Anche se tutte le società occidentali sono accomunate dalla contrazione strutturale del settore manifatturiero, non tutte hanno saputo reagire in maniera soddisfacente a questo declino. In questo quadro, l'economia Americana è posizionata molto meglio di molto altri paesi occidentali. A differenza della maggior parte dei Paesi Europei, e dell'Italia in particolare, negli ultimi cinquant'anni, gli Stati Uniti si sono reinventati, passando da un'economia fondata sulla produzione di beni materiali a un'economia basata su innovazione e conoscenza.
L'occupazione nel settore dell'innovazione è cresciuta a ritmi travolgenti. L'ingrediente chiave di questo settore è il capitale umano, e dunque istruzione, creatività e inventiva. Il fattore produttivo essenziale sono insomma le persone: sono loro a sfornare nuove idee. Le due forze che hanno decimato le industrie manifatturiere tradizionali - la globalizzazione e il progresso tecnologico - stanno ora determinando l'espansione dei posti di lavoro nel campo dell'innovazione.
La globalizzazione e il progresso tecnologico hanno trasformato molti beni materiali in prodotti a buon mercato, ma hanno anche innalzato il ritorno economico del capitale umano e dell'innovazione. Per la prima volta nella storia, il fattore economico più prezioso non è il capitale fisico, o qualche materia prima, ma la creatività.

Non sorprende perciò che la parte più importante di valore aggiunto dei nuovi prodotti sia appannaggio degli innovatori. L'iPhone consta di 634 componenti. Anche se vi lavorano in centinaia di migliaia, il valore aggiunto generato a Shenzhen è molto basso, perché l'assemblaggio potrebbe essere effettuato in qualsiasi parte del mondo. La forte competizione globale limita anche il valore aggiunto dei componenti, comprese le parti elettroniche più sofisticate, come la flash memory o il retina display.
La maggior parte del valore aggiunto dell'iPhone viene dall'originalità dell'idea, dalla formidabile progettazione ingegneristica e dall'elegante design. Quindi non deve stupire che, pur non producendo nessuna parte materiale del telefono, la Apple guadagni 321 dollari per ogni iPhone venduto, il 65% del totale, ben più che qualsiasi fornitore di componenti coinvolto nella fabbricazione fisica dell'apparecchio. Ciò è di notevole importanza non solo per i margini di profitto della Apple, ma soprattutto perché si traduce nella creazione di buoni posti di lavoro in America.
Oggi è questa la parte dell'economia che crea valore aggiunto. Una parte dei 321 dollari incassati dalla Apple finisce nelle tasche degli azionisti della società, ma una parte va ai dipendenti di Cupertino. E l'alta redditività incentiva l'azienda a proseguire sulla via dell'innovazione e a reclutare nuovo personale. Studi economici recenti mostrano che più un'impresa è innovativa, più alti sono i salari offerti ai dipendenti.
Il settore dell'innovazione comprende l'advanced manufacturing, o industria avanzata (come quella che progetta gli iPhone o gli iPad), software e servizi Internet, le biotecnologia, l'hi-tech del settore medico, la robotica, la scienza dei nuovi materiali e le nanotecnologie. Ma l'ambito dell'innovazione non è circoscritto all'alta tecnologia. Vi rientra qualsiasi occupazione capace di creare nuove idee e nuovi prodotti.
Ci sono innovatori nel settore dell'intrattenimento, in quello dell'ambiente e persino nella finanza e nel marketing. L'elemento che li accomuna è la capacità di creare prodotti nuovi che non possono essere facilmente replicati. Tendiamo a concepire l'innovazione in termini di beni materiali, ma può anche trattarsi di servizi, per esempio di nuovi modi per raggiungere i consumatori o per impiegare il nostro tempo libero.

Nei prossimi decenni la competizione globale sarà incentrata sulla capacità di attrarre capitale umano e imprese innovative. Il numero e la forza degli hub dell'innovazione di un Paese ne decreteranno la fortuna o il declino. I luoghi in cui si fabbricano fisicamente le cose seguiteranno a perdere importanza, mentre le città popolate da lavoratori interconnessi e creativi diventeranno le nuove fabbriche del futuro. Nel prossimo articolo vedremo come l'Italia si posiziona in questo quadro globale sempre più competitivo.

 

 
Torino, 16 giugno 2013
 
Quando poche parole e numeri servono più di mille trasmissioni televisive o letture di fogli e fogli di giornali sull'argomento crisi, fisco e ripresa. I soliti "MAGNIFICI DUE" Alesina e Giavazzi hanno ricordato a tutti e SOPRATTUTTO  A CHI GOVERNA COME SI POSSA ESSERE VERAMENTE .... INUTILI SE NON SI SEGUE IL SEMPLICE PENSIERO, NON SOLO DI DUE GRANDI ECONOMISTI, MA QUELLO CHE PUO' ESSERE DEFINITO QUELLO DEL "BUON PADRE DI FAMIGLIA".
ECCO L'ARTICOLO RIPROPOSTO QUI SOTTO E CHE TUTTI SOPRATTUTTO GOVERNO, COMMISSSIONI ED AULE DOVREBBERO APPLICARE SUBITO. L'IMPRESSIONE CHE SI VIAGGI SUI TATTICISMI C'E' ED E' FORTE.
MA PERCHE' NON SEGUIRE QUESO PERCORSO ASSOLUTAMENTE FATTIBILE ??????
ECCO L'IMPORTANTISSIMO "LUME" GETTATO ANCORA UNA VOLTA (CON GRANDE PAZIENZA, UMILTA' E PROFESSIONALITA') PER CHI DEVE  CAPIRE E CONTINUA A FAR FINTA DI NON CAPIRE !!!!!!!!!!!!.
 
DAL CORSERA DI OGGI 16 GIUGNO 2013 !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
 
Alesina e Giavazzi - Coraggio, un taglio forte alla spesa
Cosa si può fare
CORAGGIO UN TAGLIO FORTE ALLA SPESA di ALBERTO ALESINA e FRANCESCO GIAVAZZI
Ci risiamo. Le spese delle pubbliche amministrazioni non possono essere tagliate, quindi non solo non si può abbassare la pressione fiscale, anzi la si deve aumentare. L'altro ieri il ministro Saccomanni ha detto: «Eliminare l'Imu sulla prima casa costerebbe allo Stato 4 miliardi l'anno, che aggiunti ai 4 miliardi che costerebbe lo stop all'aumento di un punto dell'Iva farebbero ipotizzare la necessità di interventi di tipo compensativo di estrema severità che al momento attuale non sono rinvenibili" La spesa pubblica al netto degli interessi e della spesa per prestazioni sociali somma (dati 2012) a 351 miliardi di euro: 165 per stipendi dei dipendenti pubblici, 89 per l'acquisto dì beni e servizi, 33 di trasferimenti a vario titolo alle imprese, 35 per altre attività, in cui rientra il costo delle assemblee elettive e solo 29 per investimenti pubblici. 351 miliardi! E senza toccare le pensioni, i sussidi di disoccupazione e il poco, troppo poco, che lo Stato da a chi è davvero povero, non se ne possono risparmiare 8, cioè il 2,2 per cento? Chiedete a una famiglia, o a un piccolo imprenditore in difficoltà, se non riesce a tagliare il 2,2 per cento di quanto spende. A che cosa servono le Province? Uno studio dell'istituto Bruno Leoni (www.brunoleoni.it) stima che i risparmi dall'abolizione delle Province, anche tenendo conto che i dipendenti dovrebbero essere riallocati in altre amministrazioni, ammonterebbero a 1,9 miliardi l'anno. Una commissione istituita dal governo Monti aveva individuato (con applauso di Confindustria) una decina di miliardi di possibili tagli ai sussidi alle imprese senza toccare i sussidi a scopo sociale, e proponendo che venissero trasformati in una corrispondente riduzione del cuneo fiscale. Se ne è persa traccia. Un decreto del governo Monti prevede che il 13 settembre vengano chiusi 31 tribunali e procure, 220 sezioni giudiziarie distaccate e 667 uffici del giudice di pace, con un risparmio stimato dall'ex-ministro Severino in almeno 30 milioni l'anno. Ma non è più certo che accada: un mese fa il Tar del Lazio ha accolto una richiesta di sospendere la chiusura della sede distaccata dì Ostia e Inviato gli atti alla Corte costituzionale. Insomma, possibile che su 351 miliardi di euro di spese non se ne trovino 8 da tagliare Si stima che le imposte evase sommino a 120-150 miliardi l'anno. Possibile che non si possa recuperare qualcosa di più di quanto già fatto, ad esempio usando meglio gli incroci fra banche dati? Ogni euro recuperato dovrà essere destinato esclusivamente a ridurre la pressione fiscale sui cittadini onesti, ad esempio istituendo un «premio di fedeltà fiscale». Non appena nominato, il ministro Saccomanni ha preso una decisione coraggiosa: ha decapitato la burocrazia che per un decennio aveva retto il ministero dell'Economia, sostituendola con persone nuove e capaci, un nuovo Ragioniere generale dello Stato che è uno dei migliori e più esperti funzionari della Banca d'Italia. E tuttavia, anziché impegnarsi a trovare spese da tagliare per ridurre la pressione fiscale, si preoccupa perché non trova i denari per impedire un aumento (non una riduzione) dell'Iva! Saccomanni sbaglia quando definisce questi tagli interventi di «estrema severità». Così facendo trasmette un messaggio pericoloso: tagliare le spese sarebbe un intervento grave, la pressione fiscale non si può ridurre senza fare cose gravi. Siamo da capo. Tassa e spendi, una politica che ci ha portato sull'orlo del collasso. Non si può tagliare nulla, si può solo far pagare più Iva ai cittadini.
 
 
 
 
 
 
 

Gli Usa possono cambiare la geopolitica del greggio

Torino, 29 maggio 2013

Tra le tante notizie una, anche se non nuovissima, che potrebbe comunque tener presente poiché nel breve-medio termine potrà essere di qualche rilievo!! L'ottimo Molinari, corrispondente de "La Stampa" dagli Usa, pubblica un articolo sull'argomento che vi ripropongo.
Da La Stampa online di oggi:

Il nuovo petrolio Usa spacca il fronte Opec
 
maurizio molinari
CORRISPONDENTE DA NEW YORK
 
“Shale gas” e ”shale oil” sono nuove risorse energetiche che fino a pochi anni fa non erano disponibili

I Paesi africani: portiamo il barile a 120 dollari

 http://www.lastampa.it/2013/05/29/economia/il-nuovo-petrolio-usa-spacca-il-fronte-opec-VVYD5HMidXBAmIhFdq1gcN/pagina.html?wtrk=cpc.social.Twitter

La produzione di greggio in Nordamerica accelera e provoca una spaccatura nell’Opec sulle contromisure da adottare. Nel 2011 gli Stati Uniti hanno estratto 4,6 milioni di barili al giorno, alla fine di quest’anno saranno a 7,3 milioni e nel 2014, calcolando anche il Canada, arriveranno a 14,5 milioni. E’ il risultato del boom di estrazione di «shale oil», iniziato nel 2008 grazie alla tecnica del «fracking» - la trivellazione orizzontale - che ha consentito di accedere a giacimenti finora non raggiungibili in North Dakota e Texas.  
A subire l’impatto sul mercato del greggio sono i Paesi che finora hanno esportato negli Stati Uniti il greggio più simile allo «shale oil»: Algeria, Nigeria e Angola hanno registrato nel 2012 una diminuzione dell’export del 41 per cento e la tendenza continua. Si tratta del blocco africano dell’Opec che venerdì a Vienna, alla riunione dei maggiori Paesi produttori, chiederà di diminuire l’estrazione per mantenere alti i prezzi. Al momento il barile si aggira sui 102 dollari ma l’Algeria avrebbe bisogno di portarlo a 121 dollari per tenere in equilibrio il bilancio facendo fronte al calo di entrate e anche la Nigeria ammette le difficoltà. «Lo shale oil americano per noi è fonte di gravi preoccupazione» ammette il ministro del Petrolio nigeriano, Diezani Alison-Madueke. Gli africani tenteranno un accordo con l’Iran, che ha bisogno dei prezzi alti per far fronte all’impatto delle sanzioni stimato in una perdita di circa 26 miliardi di dollari, ed al Venezuela alle prese con una crisi galoppante.  
Sul fronte opposto, ad opporsi ad una riduzione della produzione c’è l’Arabia Saudita che non solo è il tradizionale alleato di Washington ma non ha sofferto l’impatto dello shale oil per due ragioni: produce un tipo di greggio diverso ed ha più compratori degli africani. Ecco perché il ministro del Petrolio di Riad, Ali al-Naimi, si dice «non preoccupato dallo sviluppo di fonti non convenzionali di energia» sottolineando che «la domanda globale di greggio continua ad aumentare» soprattutto in Asia.  
Ma gli africani restano all’attacco. «Lo shale oil ci minaccia» afferma la nigeriana Alison-Madueke. «Se le entrate continueranno a scendere, lo shale oil ci obbligherà a ridurre la spesa pubblica» aggiunge allarmato il ministro delle Finanze algerino Karim Djoudi. Ciò che più preoccupa il fronte Africa-Iran-Venezuela è l’aumento del petrolio in eccesso sul mercato: rispetto ad una media di mezzo milione di barili, lo shale oil lo ha fatto lievitare a 1,5 milioni. Come se non bastasse la commissione Energia della Camera dei Rappresentati di Washington ha deciso di esaminare la proposta di porre fine al divieto di esportare petrolio, compiendo il primo passo verso la trasformazione degli Stati Uniti in un aperto rivale dell’Opec. I Paesi candidati a diventare clienti degli Stati Uniti sono anzitutto quelli che consumano petrolio leggero, a cominciare dall’Europa Occidentale - come indica un recente studio di Royal Dutch Shell presentato a Washington - e ciò significa per le compagnie texane la possibilità di competere con i fornitori russi e nordafricani finora dominatori nel Vecchio Continente. Si tratta di un capovolgimento dell’equilibrio Opec-Stati Uniti che sin dall’embargo del 1973 aveva visto Washington oggetto di ricatti e pressioni dei Paesi produttori. A conferma di tale cambiamento c’è il fatto che se passasse a Vienna l’aumento del prezzo a giovarsene sarebbero comunque gli Stati Uniti in ragione del fatto che l’estrazione dello shale oil diventa attraente per i petrolieri quando il barile supera i 70 dollari. Dunque, più sale il costo del greggio, più shale oil verrà estratto.  

 

 

 

Mentre noi parliamo la UE agisce: può porre il veto ai bilanci e non più solo raccomandazioni

 
Torino, 13 marzo 2013
Da "Il Fatto Quotidiano" di di oggi

Il provvedimento approvato dal Parlamento europeo assegna alla Commissione europea un ruolo del tutto inedito: la possibilità di pronunciarsi sui bilanci nazionali dei 17 Paesi della zona euro (a partire dal 2014) ed eventualmente di porre il veto (fino ad oggi poteva esprimere solo raccomandazioni).

Il Parlamento europeo approva il cosiddetto two pack ovvero la parte finale del nuovo regolamento di stabilità economica che assegna alla Commissione europea un ruolo del tutto inedito: la possibilità di pronunciarsi sui bilanci nazionali dei 17 Paesi della zona euro (a partire dal 2014) ed eventualmente di porre il veto (fino ad oggi poteva esprimere solo raccomandazioni). L’aula di Strasburgo cerca di rendere più trasparente e democratica possibile questa supervisione nonché l’assistenza finanziaria ai Paesi in difficoltà, vedasi Grecia. Insomma la maggior stabilità economica dell’eurozona costa ai suoi Paesi membri un pezzetto rilevante di sovranità, ma nell’ottica della nuova Unione economica e monetaria europea si tratta di una tappa fondamentale.
Entro il mese di ottobre di ogni anno, i 17 Paesi dell’eurozona dovranno sottoporre a Bruxelles i propri bilanci per l’anno successivo (in Italia la legge Finanziaria). La Commissione europea si pronuncerà caso per caso esaminando i conti previsti e, nel caso, potrà chiedere ai governi nazionali cambiamenti sostanziali nonché emettere sanzioni per chi non volesse adeguarsi. Si tratta del completamento naturale del lungo processo di integrazione economica iniziato con il Semestre europeo e che attraverso il nuovo Patto di stabilità (Fiscal compact) e il precedente Six pack, cerca di coordinare l’andamento economico dell’intera eurozona per evitare cortocircuiti come quello greco e, in misura minore, irlandese e portoghese.
Ad una maggior coordinazione e prevenzione internazionale fa da contrappeso una parziale perdita di sovranità economica per i 17 Paesi dell’area euro che in materia economica non potranno più decidere tutto da soli. A questo si aggiunge un altrettanto parziale deficit democratico che attribuisce ad un organismo tecnico come la Commissione europea (anche se i suoi commissari sono nominati dai governi nazionali e poi approvati dal Parlamento europeo) un potere economico inimmaginabile alla vigilia della crisi economica e che potrà essere difficilmente superato senza una più stretta unione politica a livello comunitario. Da questo punto di vista il Parlamento europeo ci ha messo una pezza cercando, nei limiti del possibile, di aumentare la trasparenza di questo controllo e di mitigare l’intervento della Commissione su determinati capitoli di spesa nazionale utili a stimolare la crescita e l’occupazione o gli investimenti in ambiti delicati come l’istruzione e la sanità, in particolare nei Paesi già in gravi difficoltà finanziarie (oggi sono stati approvati due rapporti, uno dell’eurodeputato popolare francese Jean-Paul Gauzès e l’altro della socialista portoghese Elisa Ferreira).
Più controllo anche sull’azione della Troika. Un maggior potere da parte di Bruxelles ed eventuali future assistenze finanziarie (tramite il fondo Ems) vuol dire anche la formazione di altre Troike, ovvero i “men in black” di Ue, Bce e Fmi che hanno seminato tanto panico in Grecia. Per non sentire più la parola commissariamento, il Parlamento europeo ha chiesto più trasparenza nel loro operato, ma su questo ci sono ancora pochi dettagli.
Infine un po’ di attenzione anche alla crescita. Contrariamente alle ali più a destra del Parlamento europeo che chiedevano solo più controllo e austerità, socialisti, verdi e liberali hanno insistito affinché si prendessero in considerazione determinate misure mirate alla ripresa e alla crescita, come l’istituzione di un Fondo europeo di redenzione (aiuto per gli Stati con debito pubblico oltre il 60% del Pil e utile per abbassare i tassi d’interesse sui titoli di debito pubblico), i cosiddetti Eurobills (sostituzione parziale delle emissioni nazionali di debito attraverso l’emissione comune sotto forma di un fondo di riscatto ed eurotitoli) e la creazione di un ‘gruppo di saggi’ che emetterà un parere sulla fattibilità di un sistema di eurobond (emissione di debito comune nell’area euro). Piaccia oppure no, l’accordo così come votato oggi dal Parlamento europeo, dovrebbe essere approvato anche dal Consiglio (in rappresentanza dei Paesi membri) ed entrare direttamente in vigore nel 2014 dal momento che non c’è bisogno di recepimento da parte delle normative nazionali (contrariamente alle Direttive Ue).